Ultimo aggiornamento alle 21:41
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 7 minuti
Cambia colore:
 

NEVER MORE | La testimonianza di uno degli approdati a Reggio

REGGIO CALABRIA Sono finiti in manette i 18 trafficanti di uomini che nella notte fra sabato e domenica hanno scaricato su un peschereccio male in arnese i 226 profughi arrivati ieri a Reggio Calab…

Pubblicato il: 14/10/2013 – 22:41
NEVER MORE | La testimonianza di uno degli approdati a Reggio

REGGIO CALABRIA Sono finiti in manette i 18 trafficanti di uomini che nella notte fra sabato e domenica hanno scaricato su un peschereccio male in arnese i 226 profughi arrivati ieri a Reggio Calabria. Per ordine del procuratore aggiunto, Nicola Gratteri, dopo averli individuati, gli uomini della Finanza li hanno monitorati per giorni, hanno visto come a 150 miglia al largo di Capo Spartivento abbiano fatto trasbordare i 226 migranti dal cargo a un peschereccio in pessime condizioni, poi mentre due motovedette soccorrevano i profughi, li hanno abbordati. Stando alle prime ricostruzioni, l’equipaggio – che si è immediatamente arreso – è stato costretto a fare rotta su Reggio Calabria, dove questa sera sono stati immediatamente prelevati dagli uomini della Guardia di Finanza e nelle prossime ore saranno identificati e le loro posizioni passate al vaglio. Per dieci membri dell’equipaggio c’è già un decreto di fermo per associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina firmato dal procuratore capo Federico Cafiero De Raho, dall’aggiunto Nicola Gratteri e dai due sostituti, Paolo Sirleo e Annamaria Frustaci, mentre per sette di loro – tutti minorenni – toccherà al Tribunale dei minori assolvere agli adempimenti del caso. Un’operazione importante  – si commenta – non solo perché sono stati fermati i responsabili di almeno una delle carrette della morte che solcano il Mediterraneo lucrando sulla disperazione di chi fugge da guerre e cecchini, ma anche perché – adesso-  gli inquirenti avranno la possibilità di capire quanto sia vasta e come si muova l’organizzazione che ormai da mesi traffica vite sulle rotte che, dall’Egitto o dalla Turchia, conducono alle coste joniche calabresi e siciliane. Un business diventato fiorente con l’inasprirsi del conflitto in Siria, che ha riempito il Paese di tombe e le coste egiziane di disperati che cercano un’opportunità di vita altrove.

La storia di Muahammad
«Ci giochiamo una carta, forse una delle poche che ci sono rimaste», racconta Muahammad, venticinque anni e un sorriso che né la guerra né la traversata hanno spezzato. Anche lui era sul barcone che ieri è stato intercettato dalla motovedetta poco prima che affondasse. «Non capivamo bene cosa stesse succedendo, eravamo stanchi, stremati. Sul cargo, abbiamo avuto da mangiare solo per i primi due giorni, poi ci è rimasto solo da bere, poi più niente. Al settimo giorno quando ci hanno fatto trasbordare, prima che arrivasse la Finanza pensavo che non ce l’avrei mai fatta». E il viaggio per Muahammad è iniziato molto prima di salire sul barcone. «Sono uscito dalla Siria regolarmente, io ho il passaporto. Ho preso un aereo per l’Egitto. Arrivato lì ho iniziato a chiedere in giro, mi hanno dato diversi numeri di telefono. Ho dovuto fare diverse telefonate prima di trovare il canale giusto, poi finalmente ho agganciato uno di quelli che organizzano i barconi». Non il capo dice Muahammad, «al massimo avrò parlato con un luogotenente, l’organizzazione è molto vasta». E macina una quantità infinita di denaro. I viaggi si pagano in valuta statunitense e la tariffa base è di tremila dollari a testa. «Ho preso tutto quello che avevo e l’ho investito su questo viaggio. Sapevo che sarebbe stata dura, ma non pensavo che lo fosse così tanto. Ma sai, io lo rifarei. Non c’è vita in Siria, non c’è futuro», dice il ragazzo, con lo sguardo che si rabbuia.

«Ho rischiato di essere ucciso almeno quattro volte»
«La Siria era un Paese normale, si stava bene, io avevo una vita normale. Mi ero preso un anno di pausa dall’università perché avevo avuto un diverbio con il rettore, mi stavo guardando intorno, facevo progetti. Poi tutto è cambiato. Le strade si sono riempite di cecchini, sulle nostre case sono arrivate le bombe. Ho rischiato di morire almeno quattro volte». Ed è con rabbia che Mouhammad, nel suo inglese inframmezzato dal suono caldo del dialetto siriano, rivela quello che solo di rado è emerso nelle cronache del conflitto siriano. «Sappiamo che qui li chiamano ribelli, ma chi ci ha distrutto la vita non sono siriani. Nell’esercito che combatte contro Assad ci sono yementi, sauditi, omaniti, afghani e persino qualche ceceno. «Non è gente nostra. Soprattutto gli ufficiali sono tutti stranieri». E quando attaccano non hanno alcuna pietà, sussurra. Per questo, Mouahammad ha scelto la via del mare. Ha scelto di sfidare il Mediterraneo per raggiungere la madre già da tempo in Svezia, «voglio raggiungerla e finire lì l’università. Faccio ingegneria delle telecomunicazioni, mi manca meno di un anno». Il padre – si lascia sfuggire in un sussurro – è rimasto in Siria. «Potevamo permetterci solo un viaggio. Lui ci raggiungerà dopo». Accanto a lui, Nouhar, ascolta e annuisce. Ha sedici anni, ma ne dimostra qualcuno in più. E anche lui, quando parla della Siria, della sua vita spezzata nel giro di pochi mesi, ha negli occhi e nella voce la tristezza e la malinconia dell’esule. Anche se in fondo, lui – al pari di Mouahammad – esule lo è sempre stato. Entrambi sono palestinesi.

La nakba mai conclusa dei rifugiati palestinesi
Sulla carta, anche in Siria erano dei rifugiati. Sono nati rifugiati. Nelle loro vene scorre il sangue dei primi profughi arrivati dalla Palestina dopo il 15 maggio 1948, data in cui lo stato d`Israele si è impossessato delle loro terre e delle loro case. Per i palestinesi quel giorno è la Nakba, la catastrofe. Cinquecentotrenta villaggi sono stati distrutti dalle truppe israeliane, nessuno è mai riuscito a contare con esattezza i morti, ma più del 60% della popolazione della Palestina storica è stato espulso, in 750 mila si sono sparpagliati nei paesi confinanti – Siria, Libano, Giordania – dove per decenni hanno atteso un ritorno che non è mai stato loro consentito. Al contrario, a quell’esodo iniziale ne sono seguiti altri, frutto di altrettanto sanguinosi conflitti, come quello del 67. Da allora, i palestinesi si sono adattati a vivere nei campi profughi divenuti progressivamente agglomerati urbani o piccole città nei Paesi ospiti. «A differenza del Libano o della Giordania, noi i palestinesi in Siria stavamo bene – dice il ragazzo –  Non potevamo votare per il presidente ma per il resto avevamo gli stessi diritti dei siriani. Nessuno ci ha mai vietato di andare a scuola o di ricevere assistenza sanitaria come in Libano, né avevamo le limitazioni che subiscono i palestinesi di Giordania. Ma la Siria la stanno cancellando a suon di bombe, non c’è più vita lì, non c’è più niente». Muahammad e Nouhar non sono gli unici palestinesi arrivati a Reggio domenica notte. Stando a stime approssimative dovrebbero essere almeno cinquanta. Ragazzi soli come loro, ma anche interi nuclei familiari. E tutti hanno un obiettivo comune: raggiungere i parenti che sono già da tempo in Europa. «Abbiamo paura che farci identificare qui e inoltrare qui la richiesta d’asilo, ci impedisca per sempre di riunirci alle nostre famiglie. Io qui non conosco nessuno, non parlo la lingua, non saprei cosa fare», dice preoccupato Nouhar.  Un problema comune a tanti, non solo palestinesi, ma nei confronti del quale Bruxelles continua a fare orecchie da mercante.

Gara di solidarietà a Pellaro
E mentre l’Italia inaugura l’ennesima missione militare, al Palazzetto dello sport di Pellaro – dove i migranti sono stati ospitati – è stata la solidarietà spontanea dei cittadini del reggino a inondare il centro di vestiti, scarpe, asciugamani, medicine, leccornie e giocattoli per i bambini. Alla struttura allestita a tempi record dall’ormai rodata macchina dell’emergenza che vede in prima linea Prefettura, Protezione civile, forze dell’ordine e volontariato, si sono presentati a centinaia. Ci sono medici e pediatri, semplici cittadini che arrivano con buste di vestiti, scarpe e coperte, ma anche chi – come il titolare di un noto bar del luogo – appena avuta la notizia dello sbarco, si è presentato a Pellar
o con sedici cartoni di latte, 200 brioches e gelatini per tutti. «I reggini si sono sempre mostrati generosi con i migranti – dice uno dei volontari dell’Endas, una delle dieci associazioni coinvolte nella gestione del provvisorio centro – ma questa volta, forse per la presenza dei bambini, siamo stati travolti dalle offerte». «Facciamo quello che possiamo per rendere la permanenza di questa gente più dignitosa possibile», dice una signora appena arrivata con una busta di vestiti fra le braccia.
Quello che però nessun volontario potrà offrire ai profughi arrivati domenica notte nel reggino è la speranza di un futuro migliore, pratiche celeri per l’asilo politico, supporto e assistenza per l’inserimento nel nuovo Paese. A questo dovrebbero pensarci le istituzioni italiane ed europee. Che al momento rimangono mute. (0030)

Argomenti
Categorie collegate

Corriere della Calabria - Notizie calabresi
Corriere delle Calabria è una testata giornalistica di News&Com S.r.l ©2012-. Tutti i diritti riservati.
P.IVA. 03199620794, Via del Mare, 65/3 S.Eufemia, Lamezia Terme (CZ)
Iscrizione tribunale di Lamezia Terme 5/2011 - Direttore responsabile Paola Militano
Effettua una ricerca sul Corriere delle Calabria
Design: cfweb

x

x