Processo "Cartaruga", l`accusa regge: sette condanne e tre assoluzioni
REGGIO CALABRIA Tre assoluzioni e sette condanne: è una conferma dell’impianto accusatorio costruito dal pm Stefano Musolino, la sentenza emessa oggi dal gup Carlo Alberto Indellicati a conclusione d…

REGGIO CALABRIA Tre assoluzioni e sette condanne: è una conferma dell’impianto accusatorio costruito dal pm Stefano Musolino, la sentenza emessa oggi dal gup Carlo Alberto Indellicati a conclusione del processo “Cartaruga”, il procedimento con rito abbreviato scaturito dalle tre inchieste che nell’ultimo anno hanno colpito la cosca Caridi, federata, con le famiglie Borghetto e Zindato, e il più prestigioso e potente clan Libri, tutti radicati nella zona di San Giorgio Extra e Ciccarello di Reggio Calabria.
All’assoluzione chiesta dallo stesso pm Musolino per Antonio Stelitano, si aggiungono – per volere del gup anche quelle di Giovanni Rodà e Fortunato Quartuccio.
Condanne pesanti arrivano invece all’indirizzo di quelli che la pubblica accusa considera elementi di rango all’interno della consorteria criminale. Il gup Indellicati ha condannato a sedici anni di reclusione il boss del clan Caridi, Antonino. Dieci anni – esattamente la metà di quanto chiesto dalla pubblica accusa – dovrà invece passare dietro le sbarre Giovanni Pangallo, zio materno dei fratelli Caridi, pizzicato nel circolo “Caccia Sviluppo e Territorio” – costante punto di incontro e riunione degli appartenenti alla cosca Caridi ma anche sede della segreteria politica dell’ex consigliere comunale Giuseppe Plutino, che affronta il processo in ordinario – a commentare in dettaglio estorsioni già consumate o da perpetrare, con tanto di particolari sugli imprenditori da estorcere, le attività da infiltrare, l’ammontare delle somme di danaro da riscuotere a titolo di pizzo, le percentuali dello stesso.
Decisamente più ridotta la pena inflitta a Domenico Antonio Laurendi, condannato a sei anni di reclusione perché ritenuto il collettore delle estorsioni.
È invece di quindici anni e quattro mesi – un paio in meno di quanto chiesto dal pm – la condanna comminata dal gup a Francesco Rosmini, considerato esponente apicale dell’omonimo clan, arrestato nell’operazione “Cartaruga”, assieme al suo uomo di fiducia, Carmelo Mandalari, condannato invece a sei anni e otto mesi a fronte di una richiesta di 9 anni di carcere. Dominus di una serie di imprese dalle attività più diverse – dalla forniture di materiale cartaceo e buste ai grandi centri commerciali della città agli infissi – Rosmini, intercettato dagli investigatori, si paragonava a un “re generoso”, un monarca assoluto ma comunque sollecito nei confronti dei sudditi.
«Ma dategli il pane al popolo così vi vuole bene – diceva intercettato dalle cimici degli investigatori – sai quei film quando c’è il re… allora il popolo che grida che ha fame… allora tu dagli il pane e vedi come li tieni buoni!».
Assieme a lui, nel corso della medesima operazione, a finire in manette erano stati anche l’anziano patriarca Bruno Rosmini e la giovanissima Luana, entrambi accusati di intestazione fittizia e per questo condannati a un anno e quattro mesi con pena sospesa. Per loro il pm Musolino aveva invocato invece una condanna a tre anni di carcere.
Le tre inchieste sfociate nell’omonimo procedimento, che ha visto oggi concludersi il primo grado dell’abbreviato, hanno assestato un duro colpo alle `ndrine egemoni nel territorio compreso fra San Giorgio Extra e Ciccarello, già colpite dall`operazione che il 29 ottobre del 2010 che aveva portato a decine di arresti di affiliati dei medesimi clan. Ed è proprio approfondendo quella pista che gli investigatori, coordinati dal pm Stefano Musolino, sono arrivati ai legami della cosca con la politica e con le istituzioni. E soprattutto con il consigliere Plutino – che sta affrontando il processo con rito ordinario – la cui segreteria politica aveva sede proprio in quel circolo divenuto per gli inquirenti un`inestimabile miniera di conversazioni, intercettate e messe agli atti in una delle inchieste che ha pesato – e non poco – nella relazione che ha portato allo scioglimento del Comune.
Grazie alle cimici piazzate in quel circolo che gli investigatori hanno avuto modo di ascoltare non solo conversazioni che danno conto di estorsioni già avvenute o da compiere, ma soprattutto, le poco edificanti chiacchierate tra Giovanni Domenico Savio, collaboratore e consigliere politico di Plutino, e alcuni presunti affiliati sulle future deleghe dell`amministratore. Una prova schiacciante – secondo gli inquirenti – che dimostra come «gli incarichi eventualmente assunti in seno all’amministrazione comunale fossero di interesse della cosca».
Del resto – stando alle risultanze investigative – gli appartenenti alla cosca Caridi avevano profuso non poco impegno per l`elezione del politico “amico”, nonché parente di Domenico Condemi, uno degli esponenti di spicco del clan. Per la Procura, Plutino «forniva un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo alla cosca Caridi come referente politico del sodalizio, destinatario delle preferenze elettorali, ricevute sia dagli affiliati, sia da parte di terzi ma raccolti in suo favore dagli esponenti della cosca nel corso di varie consultazioni elettorali, con particolare riferimento a quelle per l`elezione del consiglio comunale di Reggio Calabria del maggio 2011, anche mediante sistemi di alterazione della libera competizione elettorale e di controllo della libertà di voto». In cambio dell`appoggio, la cosca pretendeva affari, appalti e favori.
Come l`assunzione in qualità di collaboratore temporaneo della struttura del gruppo consiliare del Pdl in consiglio regionale, Maria Cuzzola, nipote di Eugenio Borghetto. (0010)