Pennisi e Silipo davanti al gup
REGGIO CALABRIA Quando entrambi lavoravano a Reggio Calabria, insieme – chi da inquirente, chi da investigatore – hanno firmato inchieste importanti, assestando colpi pesantissimi alle `ndrine locali…

REGGIO CALABRIA Quando entrambi lavoravano a Reggio Calabria, insieme – chi da inquirente, chi da investigatore – hanno firmato inchieste importanti, assestando colpi pesantissimi alle `ndrine locali. Poi, le loro strade si sono divise: Roberto Pennisi è diventato un alto magistrato della Dda, Luigi Silipo – dopo una stagione vissuta da braccio destro dell’ex capo della mobile reggina Renato Cortese – ha proseguito la sua carriera a Torino. Ma a tracciare la vera trincea tra Pennisi e quello che è stato uno dei “suoi” investigatori nella memorabile stagione della prima Dda reggina non è stata né la differente sede, né la carriera, ma il “caso Cisterna”, una vicenda estremamente complessa in cui il funzionario della Mobile potrebbe aver giocato un ruolo. E stando a quanto denunciato da Pennisi, un ruolo di certo né positivo né fedele a quei principi di “onestà e correttezza” che il magistrato ha sempre inculcato ai suoi collaboratori. Lunedì 15 luglio entrambi si dovranno presentare di fronte al gup Cinzia Barillà, chiamata a stabilire se l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna dovrà affrontare un processo per calunnia.
L`ESPOSTO, IL DANNO, LA BEFFA
Una vicenda quasi paradossale che si innesta nel grande calderone di veleni nato dalle rivelazioni che Nino Lo Giudice – il pentito di cui da oltre un mese si sono perse le tracce – aveva affidato a un memoriale redatto dopo i 180 giorni durante i quali i pentiti sono obbligati a mettere nero su bianco tutto quello che è a loro conoscenza. All’ex numero due della Dna, quelle parole sono costate un procedimento poi archiviato – su richiesta della stessa Procura che lo aveva istruito – per mancanza di elementi validi per sostenere l’accusa, ma soprattutto due anni di gogna e una carriera fisiologicamente proiettata alla poltrona di capo della Procura di Reggio Calabria. Ad alimentare quel procedimento c’è stata anche un’informativa redatta da Silipo dalla quale è scomparsa un’intercettazione che avrebbe immediatamente scagionato il vice di Grasso. Irregolarità denunciate da Cisterna e riscontrate dalla Procura che però, ritenendole «attinenti ad aspetti marginali e prive di dolo», ha chiesto l’archiviazione dell’esposto e contestualmente il rinvio a giudizio per calunnia di Cisterna.
LA DENUNCIA DI PENNISI
Una vicenda complessa, su cui però Roberto Pennisi da anni ha qualcosa da dire e che nessuno – a quanto pare – ha mai voluto ascoltare. In un dettagliato memoriale, l’alto magistrato della Dna ha raccontato infatti di aver appreso, in occasione di un casuale incontro con Silipo all’aeroporto di Roma, delle pressioni ricevute dal funzionario nel corso delle indagini su Cisterna. Un’inchiesta che Pennisi – amico e collega di lungo corso dell’ex numero due della Dna – conosce bene: «Il collega mi ha sempre tenuto aggiornato sullo sviluppo di quelle indagini e sulle modalità del loro svolgimento. E non nascondo come le stesse siano state improntate dalla polizia giudiziaria che le svolgeva non alla degna tenacia investigativa, bensì, secondo il mio giudizio di magistrato e uomo libero, a un sistema di ricostruzione dei fatti e dei dati investigativi che mi limito a definire non corrispondente al modello da me ritenuto giusto».
In quello stesso documento, Pennisi non esita a denunciare: «Gli dicevo, allora – si legge nella ricostruzione fatta da Pennisi –, che avevo sempre insegnato ai miei collaboratori della polizia giudiziaria, e anche a lui, ad essere tenaci e inflessibili nelle investigazioni, ma anche sempre onesti e corretti, come imposto dalla legge a tutti i pubblici ufficiali e, soprattutto, agli operatori della giustizia. Aggiunsi che non mi sembrava nel caso del dottore Cisterna egli si fosse attenuto a quell`insegnamento, per quanto io avevo appreso e constatato. Gli dissi che col dottore Cisterna egli aveva fatto il contrario di quanto avevo insegnato. A tal punto, ricordo che il dottore Silipo con le lacrime agli occhi mi disse che “era stato costretto a farlo”. Fu per me tanto chiaro il significato di quella affermazione che per garbo nei suoi confronti, dato che mi appariva addolorato, e visto che vi erano altre persone presenti in uno spazio angusto che udivano, non volli andare oltre. Ma intesi sottolineare ciò che avevo detto e lui mi aveva risposto, affermando che avevo conosciuto “uomini della polizia” che avevano sacrificato la loro vita per il rispetto della legge».
Affermazioni che la Procura reggina fino ad oggi non ha mai voluto verificare o approfondire e lo stesso Silipo solo oggi – a diversi anni di distanza – si è sentito in dovere di smentire con una secca dichiarazione all’Ansa: «Non ho mai subìto pressioni né da magistrati, né da altri nello svolgimento delle indagini delegate sulle attività di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice».
IL NANO SCOMPARSO E IL SECONDO MEMORIALE
Due versioni nettamente contrastanti che adesso toccherà al gup Barillà valutare, in un contesto in cui a pesare c’è anche lo scottante memoriale che il pentito Nino Lo Giudice ha voluto lasciarsi alle spalle dopo la sua scomparsa. In quelle sei pagine, il collaboratore che oltre un mese ha fatto perdere le sue tracce, dice chiaramente che la sua collaborazione con la giustizia è stata drogata da quella che definisce una «cricca di magistrati» – l’ex capo della Dda reggina, oggi alla guida della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto, tuttora a Reggio Calabria, Michele Prestipino, e il sostituto Beatrice Ronchi, da tempo trasferita a Bologna, ma applicata a Reggio proprio per il processo alla cosca Lo Giudice – che lo avrebbero indotto ad «accusare innocenti». Innocenti come Alberto Cisterna, a proposito del quale il Nano dice in maniera sgrammaticata ma chiara: «Subito dopo è nato qualcosa tra me e i miei interlocutori che non stava bene minacciandomi che se non avrei raccontato quello che “a loro piaceva” mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis, mi hanno intimidito con le loro parole dandomi l’ultimatum per il giorno seguente e che dovevo pensare bene cosa raccontare quando mi sarei presentato davanti a loro e con discorsi convincenti». Discorsi finiti probabilmente in quel memoriale – o meglio, si scoprirà dopo, in quei due memoriali, uno inviato al Tribunale delle Libertà di Catanzaro, uno affidato all’allora procuratore capo, Giuseppe Pignatone e al sostituto, Beatrice Ronchi – redatto al termine dei canonici 180 giorni e pubblicato dalla stampa due giorni dopo. La prima delle innumerevoli fughe di notizie che per due anni hanno scandito i capitoli di una vicenda consumata più sui media che nelle sedi dovute, passando al tritacarne la vita e la carriera di uno di quei magistrati, che – insieme al pool che Salvatore Boemi ha diretto – ha scritto di proprio pugno pagine fondamentali della storia giudiziaria reggina. (0020)