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Processo Archi Astrea, Fregona “inguaia” Vecchio

REGGIO CALABRIA “Se salgo, ti sistemo. Te lo dico qua, anche davanti a Fabio (Giardiniere ndr), se vinco io ti sistemo”: sarebbero queste le parole con cui l’ex presidente del consiglio comunale Seba…

Pubblicato il: 17/07/2013 – 22:10
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Processo Archi Astrea, Fregona “inguaia” Vecchio

REGGIO CALABRIA “Se salgo, ti sistemo. Te lo dico qua, anche davanti a Fabio (Giardiniere ndr), se vinco io ti sistemo”: sarebbero queste le parole con cui l’ex presidente del consiglio comunale Sebastiano Vecchio avrebbe assicurato un futuro roseo al futuro pentito Vittorio Fregona. Sono accuse non nuove, ma mai così pesanti e dettagliate quelle che il pentito Fregona – chiamato oggi dal pm Giuseppe Lombardo a testimoniare nel processo Archi Astrea – ha lanciato contro il politico, già in passato finito nella bufera per la partecipazione mai smentita – anzi rivendicata come “atto di cortesia verso un amico che ha perso il padre”– al funerale del boss della montagna, don Mico Serraino.

LE PROMESSE DISATTESE DI VECCHIO
Una vita fatta di furti ed espedienti, Fregona – racconta – si è avvicinato al clan grazie al cognato, Nino Pirrello, e per gli uomini del clan si è messo a disposizione. Anche dal punto di vista elettorale. “Più volte ho visto i Serraino e Giardiniere discutere all’interno della concessionaria di Caridi. Parlavano anche delle elezioni e dicevano che bisognava far vincere Seby Vecchio. Anche io – afferma – ero incaricato di cercare voti”. E al ragazzo dal passato burrascoso e dal presente incerto – con in più una famiglia a carico sarebbe stato Vecchio in persona a promettere una casa popolare. Promessa puntualmente disattesa – ricorda con stizza Fregona – che all’indomani delle elezioni, che hanno visto Vecchio trionfare con valanghe di voti, si è presentato nell’ufficio del neoconsigliere comunale per pretendere quella casa così facilmente promessa. “Ma lui ha iniziato a fare discorsi da politico e lì mi sono arrabbiato”.

L’INCIDENTE CON RASO
Non meglio è andata a Fregona con l’allora assessore al Patrimonio edilizio, Michele Raso, in passato già indicato dall’ex collaboratore – oggi resosi irreperibile – Nino Lo Giudice, come “avvicinabile” per ottenere una casa popolare. Ma tale non è stato per Fregona, che dopo aver occupato una casa nel quartiere di Santa Caterina – stando a quanto racconta – si sarebbe presentato dal politico per chiedergli di sistemare la questione, anche in virtù della richiesta di alloggio popolare che il collaboratore aveva presentato diversi anni prima. Ma l’assessore avrebbe risposto picche, liquidandolo in malo modo. “Mi ha detto che problemi come i miei ne sentiva in continuazione”, ricorda Fregona, che all’epoca non aveva gradito per nulla la risposta sgarbata di Raso, tanto da tentare di colpirlo con la lampada che il politico aveva sulla scrivania. E il colloquio – riferisce il collaboratore – avrebbe rischiato di degenerare in rissa, se non fossero intervenuti tutti quelli che dietro la porta dell’assessore stavano facendo anticamera. Una situazione imbarazzante per il politico, che – lascia intendere Fregona – piuttosto che denunciare il tentativo di aggressione sarebbe andato a lamentarsi da qualcuno. Il quale a sua volta – circa un mese dopo – con un pretesto avrebbe attirato il futuro pentito in un appartamento di Santa Caterina. “C’erano diverse persone a anche un tale Carmelo, non tanto alto, con i capelli neri. Mi hanno chiesto se ero andato da Raso e mi hanno detto che dovevo andare a chiedergli scusa”. Una situazione delicatissima, capisce immediatamente Fregona, che tenta di trincerarsi dietro parentele che nella zona – e lui lo sa – contano. “Mi sono presentato come il fratello del cognato di Toto U Troiu, perché anche le pietre lo sanno che è dei Tegano”. E sono i Tegano – lascia intendere il collaboratore – a dettare legge a Santa Caterina.

L’INTERVENTO DEI TEGANO
Del resto, sarà proprio grazie all’“universo” dei parenti dei Tegano che Fregona riuscirà a uscire dalla spinosissima situazione in cui si era andato a cacciare, urtando la sensibilità dell’assessore. A dettare la linea da seguire, sarà Cosimo Polimeni, il suocero del fratello di Fregona, sposato con Angela, la sorella di quel Toto U Troiu, considerato dagli inquirenti uno dei generali della cosca Tegano. A lui, Fregona ha chiesto suggerimenti. E da lui sarebbe arrivato l’ordine di “chiedere scusa per il gesto e non per la causa”, ricorda il collaboratore. Ed è dunque con tutto il peso che l’interessamento di una cosca come quella dei Tegano può dare, che il fratello di Fregona si sarebbe presentato dall’assessore per riferire il messaggio e chiudere definitivamente “l’incidente”. Un’autorità e un peso, quello degli “arcoti”, di cui il terrore che ancora sembra paralizzare il collaboratore Carlo Mesiano – chiamato sul banco dei testimoni subito dopo Fregona – è la rappresentazione plastica.

IL TERRORE DI MESIANO
Per sua stessa definizione “cittadino onorario della `ndrangheta”, ma non affiliato, Mesiano mette sul piatto dell’istruttoria la sua esperienza di piccolo imprenditore edile che proprio nei cantieri ha avuto i primi contatti con i clan. È infatti al seguito di Giuseppe Romeo, «uno degli anziani del clan di Roccaforte», che il collaboratore comprende che i lavori pubblici nel paesino della Jonica e nel suo circondario si spartiscono con il benestare delle cosche, ma è soprattutto quando si confronta personalmente con il sistema di Reggio città, che impara rapidamente a seguire – e dare per scontate, senza neanche chiedere lumi al riguardo – le nuove regole del gioco. Un gioco in cui per ogni lavoro “tutti gli imprenditori devono pagare”. Ed è proprio nella veste di piccolo imprenditore che Mesiano entrerà in contatto con Carmelo Murina, Michele Franco Donatello Canzonieri che – dice quasi a fatica il collaboratore – “gestivano Santa Caterina”. Ma ci vuole tutta la perseveranza e la pazienza del pm Giuseppe Lombardo perché dopo ripetute domande, il pentito ammetta “Dottore, Santa Caterina lo gestivano per i Tegano”. La voce gli si abbassa e Mesiano – è evidente – è spaventato. Un paravento lo nasconde, ma nell’aula 12 del Cedir la gabbia degli imputati è a un soffio, lo spazio riservato a pubblico e parenti, anche. Anche se non li vede, su di sé Mesiano sente gli sguardi di quegli uomini che sta accusando. Tentenna, ha paura. E quando il pm gli chiede perché quasi sbotta “Dottore io non ho paura della verità, io sono qua. Ma penso che sappiamo tutti questa famiglia chi è e che cosa ha fatto”. Verità che Mesiano è chiamato a riferire in aula, ma che il solo nome dei Tegano sembra in grado di cancellare.

LA “FONTE” E GLI “AMICI DEGLI AMICI”
Allo stesso modo, a Reggio – riferisce il collaboratore, dopo aver superato la paralisi che il solo pronunciare certi nomi sembra provocare – per lavorare in serenità “basta andare alla fonte per stare tranquilli”. In aula, Mesiano ripete quelle stesse parole con cui il suo socio dell’epoca, Demetrio (Mimmo) Moscato gli avrebbe spiegato che la fonte cui versare religiosamente una quota degli appalti che ogni ditta a Reggio – in tutta Reggio – si aggiudica, sono i De Stefano. E proprio ad Archi, nello storico feudo della famiglia, Mesiano racconta di essere andato insieme a Moscato per pattuire la somma da versare per un lavoro in via del Torrione, in pieno centro città. Una zona lontana dalla tradizionale area di influenza del clan di Archi, ma – dice Mesiano – ugualmente sotto la loro giurisdizione. “Reggio è una città piccola, non c’è bisogno di spiegare le cose, tutti sanno cosa si deve fare e tutti pagano, affiliati e non”. E poi – aggiunge – “oggi non è come una volta, non è che devi essere unto o battezzato. Chi porta soldi è “amico degli amici”, chi si comporta bene “è amico degli amici”, chi rispetta le regole “è amico degli amici”. Una compagnia che senza necessità di cariche e santini – fa intendere la deposizione di Mesiano – ha stritolato la città. E forse non solo. (0070)

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