Colpito il patrimonio del ras dell`imprenditoria privata
REGGIO CALABRIA A pochi giorni dal suo insediamento, nel corso della prima visita in riva allo Stretto da capo della Dia, Arturo De Felice lo aveva promesso: «Reggio Calabria sarà una priorità, la gu…

REGGIO CALABRIA A pochi giorni dal suo insediamento, nel corso della prima visita in riva allo Stretto da capo della Dia, Arturo De Felice lo aveva promesso: «Reggio Calabria sarà una priorità, la guerra ai clan sarà continua». E le cosche – aveva anticipato mesi fa – andranno colpite dove più fa male, sul versante economico e finanziario. È per questo che gli uomini della Dia reggina in questi mesi si sono concentrati sul settore dell’edilizia, vero e proprio feudo dei clan, balcanizzato da ditte che delle `ndrine e dei loro territori di competenza sono diretta espressione. Una strategia che oggi ha portato i primi frutti con il sequestro di beni per oltre 25 milioni di euro eseguito a carico dell’imprenditore Giuseppe Malara, vero e proprio ras dell’edilizia privata nella zona sud di Reggio Calabria. Coinvolto e arrestato nell’operazione “Gebbione” perché ritenuto al servizio del potente clan Labate, ma assolto con formula dubitativa dal Tribunale reggino, Giuseppe Malara pensava probabilmente di essere riuscito a dribblare le attenzioni degli investigatori. Per i giudici si trattava di un «imprenditore abituato a convivere con i mafiosi, dei quali è amico e dai quali si fa blandire, ottenendo in cambio il permesso di svolgere la propria attività lavorativa nel quartiere di Gebbione», ma gli elementi raccolti non erano stati sufficienti per arrivare a una condanna. Eppure, già all’epoca – sottolinea il giudice Kate Tassone, nel decreto con cui oggi ha ordinato il sequestro di tutti i beni mobili e immobili riconducibili all’imprenditore – almeno due conversazioni fra il nipote Aurelio Litio, condannato a 5 anni e 6 mesi per associazione mafiosa, e uomini a vario titolo collegati al clan Labate, indicavano il ruolo e il peso dello zio nel contesto imprenditoriale e criminale reggino.
MIO ZIO “PEPPE `NDRANGHETA”
Parlando di Malara, è infatti lo stesso nipote a raccontare a David Fumante, condannato a 3 anni come uomo dei Labate, «ma poi, Peppe con Michele sono in buoni rapporti, capisci… non è che è una ditta che non glielo puoi dire». Il Michele in questione non è un illustre sconosciuto ma quel Michele Labate – si legge nell’informativa – che potrebbe far ottenere alla ditta di Fumante un importante appalto. Ancor più interessante per gli investigatori e gli inquirenti è la chiacchierata di Aurelio Lito con Paolo Falcone, anche lui uomo della galassia Labate, condannato in primo grado a quattro anni per associazione mafiosa. I due sono in auto quando Lito, chiamato dallo zio – “Peppe `ndrangheta”, per il nipote – si allontana con lui per una breve discussione. Al suo ritorno, Falcone apostrofa: «Questioni di `ndrangheta?». Una domanda alla quale il ragazzo, con malcelato orgoglio, non esita a rispondere: «Sì, pure di ‘ndrangheta puttana! È bravo mio zio Peppe… lo sai? Si comporta bene». E lo zio – spiega in dettaglio Lito al suo interlocutore – attualmente sarebbe legato ai Labate «a livello di lavoro, poi qualche altro traffichino lo fa pure». Rapporti confermati anche – spiega la Dia – dall’altrimenti inspiegabile presenza di Malara in ospedale, quando lì ricoverato c’era Antonino Labate, fratello di quel Michele che l’imprenditore aveva prontamente accompagnato al Riuniti.
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Tutte circostanze che la Dia reggina ha voluto valorizzare nell’informativa trasmessa alla sezione Misure di prevenzione del Tribunale reggino e sembrano aver convinto i giudici, che hanno disposto il sequestro dell’immenso patrimonio dell’imprenditore. A rafforzare ulteriormente il quadro a carico dell’imprenditore, il puntuale esame effettuato dagli uomini della Dia sui movimenti bancari di Malara. Un’analisi dai risultati inequivocabili: nonostante l’imprenditore abbia fin dagli anni 80 dichiarato redditi irrisori, assolutamente incompatibili con gli acquisti e il tenore di vita della famiglia, così come con il volume d’affari gestito dall’impresa, per avviare nuove opere e cantieri o acquisire terreni e fabbricati non ha mai fatto ricorso a finanziamenti presso gli istituti di credito, dimostrando al contrario la possibilità di maneggiare enormi quantità di denaro liquido. «Dall’analisi dei conti correnti – si legge nel decreto di sequestro – sono state riscontrate ben 63 operazioni finanziarie anomale, con il superamento della soglia prevista durante il periodo 2002/2011 e, tra queste, molte operazioni oggettivamente non giustificate con i dati di cui alle dichiarazioni annuali e/o alle attività d’impresa». Dichiarazioni passate al pettine fitto dagli uomini della Dia, che confrontando i costi medi di costruzione per metro cubo con le dichiarazioni dei redditi presentate da Malara e dalla sua famiglia nel corso degli anni – un metodo che ha fatto scuola e oggi viene utilizzato anche dalla guardia di finanza – sono giunti a conclusioni lapidarie: «L’evidente sproporzione che risulta dalla tabella riepilogativa, consente, sia pure allo stato, di affermare l’assenza in capo al Malara di concrete risorse lecite disponibili per effettuare investimenti di alcun tipo, giacché la differenza fra le entrate e le uscite dal 1978 al 2011, riferibili a lui e al suo nucleo familiare è sempre stata negativa». Un rosso fisso interrotto solo brevemente nei periodi 2000-2002 e 2004-2006, ma in ogni caso – annotano gli uomini della Dia – non sufficiente a coprire le precedenti passività, eppure Malara e i suoi «pur non avendo le capacità economiche sufficienti e pur non ricorrendo mai al credito bancario hanno acquistato beni, effettuato investimenti , costituito società». Un aspetto di cui anche Equitalia viene invitata ad interessarsi, mentre per i giudici si delinea un quadro estremamente chiaro delle attività dell’imprenditore. «Sia l’autofinanziamento che l’enorme liquidità di denaro, quest’ultima superiore del 63% rispetto al volume d’affari dichiarato – scrive il giudice Kate Tassone – lasciano ragionevolmente presumere che, nell’ambito delle condotte collegate all’appartenenza alla cosca Labate, il Malara abbia altresì impiegato capitali di provenienza illecita». E non usa mezzi termini il collegio per definire – alla luce dei nuovi accertamenti della Dia – Malara come «imprenditore colluso che intrattiene con la cosca di riferimento nel territorio, i Labate, rapporti stabili, continuativi e forieri di rapporti reciproci». Rapporti in virtù dei quali può «usufruire per le sue imprese di un tipo di protezione attiva, non fondato sulla soggezione (…) bensì sui legami di fedeltà». Tutti elementi che portano i giudici a concludere che Malara è «un soggetto socialmente pericoloso» perché «attraverso la sua appartenenza alla `ndrangheta, e in particolare sfruttando il rapporto con la famiglia Labate, cosca egemone nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria, egli ha ottenuto protezione e partecipazione alla spartizione dei lavori, così incrementando a dismisura, ma del tutto illecitamente, i profitti della propria impresa».