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“Saggezza”, 6 condanne in primo grado

REGGIO CALABRIA Si conclude con sei condanne, in alcuni casi a pene anche più severe di quanto chiesto dal pm Antonio De Bernardo, e un’assoluzione il primo grado del processo con rito abbreviato, sc…

Pubblicato il: 29/04/2014 – 19:51
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“Saggezza”, 6 condanne in primo grado

REGGIO CALABRIA Si conclude con sei condanne, in alcuni casi a pene anche più severe di quanto chiesto dal pm Antonio De Bernardo, e un’assoluzione il primo grado del processo con rito abbreviato, scaturito dall`inchiesta “Saggezza”, la monumentale indagine che non solo ha svelato l’esistenza di una nuova struttura organizzativa utilizzata dalle ‘ndrine del mandamento jonico, la Corona, ma soprattutto i contatti con i massimi vertici della massoneria.
Fatta eccezione per Rocco Ilario Maiolo, classe 1983, accusato di intestazione fittizia di beni aggravata dalle modalità mafiose ma assolto dal gup Barbara Bennato, per tutti gli imputati sono arrivate condanne severe. È di 12 anni di reclusione la condanna inflitta a Bruno Parlongo, classe 1962, due anni in più rispetto alla richiesta avanzata dal pm, mentre sono 10 gli anni che dovrà passare dietro le sbarre Rocco Varacalli. Per Carmelo Gaetano Ietto e Giovanni Macrì il gup ha disposto una condanna a 9 anni di reclusione, mentre è con una condanna a 8 anni che si conclude il giudizio per Giovanni Furfaro. Infine è di 4 anni e 1400 euro di multa la pena inflitta a Giulio Basile. Pene severe per sei dei sette imputati, entrati a vario titolo nella maxi-inchiesta che ha messo a nudo l’attività della “Corona”, la struttura per anni in grado di gestire i conflitti e spartire gli affari fra i locali di Antonimina, Ardore, Canolo, Ciminà e Cirella di Platì, rapportandosi direttamente con boss e famiglie di peso della jonica, come i Commisso di Siderno, i Cordì di Locri, i Pelle di San Luca, gli Aquino di Marina di Gioiosa Jonica, i Vallelunga di Serra San Bruno, i Barbaro di Platì, gli Ietto di Natile di Careri, i Primerano di Bovalino.

LA CORONA DELLA `NDRANGHETA Una struttura importante, in grado di dialogare con la massoneria e con la politica. «La massoneria – si legge nell’ordinanza dell’epoca – era vista dagli indagati come un trampolino di lancio, il modo più semplice ed ovvio per entrare in contatto con i vertici della società italiana, con il subdolo scopo di ottenerne vantaggi economici e personali, facilitare le loro condotte illecite ed accrescere il dominio sul territorio». E quanto meno nel proprio territorio, la Corona e i suoi uomini di vertice non avevano difficoltà a farlo. Al contrario, la «capacità di entrare in contatto con ambienti istituzionali» era una delle caratteristiche principali e dei compiti peculiari della struttura. A guidarla, il boss Vincenzo Melia, individuo dalla “carriera criminale” non di poco conto, per gli inquirenti in possesso delle doti di `ndrangheta almeno fin dal 1962 e dall’autorità indiscussa,  dunque scelto per dirigere la struttura, «un`entità superiore ai locali  – spiegano i magistrati – e collegata a quello che si potrebbe individuare come il “terzo livello”, cioè con gli ambienti della massoneria e della politica». Ma a Melia spettava anche il compito di curare i rapporti con le altre articolazioni dell`associazione, che estendeva i propri tentacoli anche all’estero, fino in Australia e negli Stati Uniti.

GLI INTERESSI DELLA CORONA Sotto il tallone della struttura che rendeva unica cosa i cinque locali, passava di tutto, dagli appalti alle elezioni. Dai lavori edili al taglio dei boschi, passando per gli appalti pubblici e l’esercizio abusivo del credito, fino all`elezione del presidente della Comunità montana “Aspromonte Orientale” – quel Bruno Bova tratto in arresto a novembre e oggi raggiunto da una notifica di conclusione indagini –  gli uomini della Corona controllavano tutto ed erano in grado di muoversi su tutti i piani. A rivelare in maniera plastica il potere della nuova struttura è proprio la corsa di Bova, all’epoca vicesindaco di Ardore, alla presidenza della Comunità montana. Per i clan «favorire un affiliato al “locale” di Ardore affinché raggiungesse una posizione direttiva piuttosto importante nell`economia del territorio, alla guida di un ente periferico in grado di gestire denaro pubblico e quindi bandire gare d`appalto, interloquire con gli apparati provinciali e regionali e condizionare, mediante le alleanze politiche e la spartizione delle varie cariche al suo interno, le scelte di una parte dell`elettorato, era un`occasione da non perdere, soprattutto per quella `ndrangheta inserita maggiormente nel mondo dell`imprenditoria, di cui facevano parte gli affiliati alla “Sacra Corona”».

QUEI RAPPORTI CON LA MASSONERIA Ma è soprattutto sfruttando conoscenze e influenze dei fratelli massoni che gli uomini della Corona progettavano di imporre il proprio volere e il proprio raggio d’azione. Almeno sei dei personaggi arrestati nell’ambito dell’operazione Saggezza erano membri – scrive il gip – della «loggia massonica con sede in via Mazzini di Siderno, facente capo alla più grande loggia madre denominata Camea (Centro attività massoniche esoteriche accettate) il cui Gran Maestro risultava essere all`epoca dei fatti “omissis” (persona estranea all`indagine e non indagata), identificato dai fratelli massoni con l`appellativo di “Ripa 33”».
Insieme a politici, imprenditori, professionisti iscritti alla loggia c’erano anche uomini di peso della Corona e del locale di Ardore. È il caso del “maestro di Corona e capoconsigliere” Nicola Nesci, che anche tra i grembiulini aveva fatto una discreta carriera: l`uomo – scrivono i magistrati – è “Maestro segreto di 31° grado”, nonché “Presidente della camera di 4° grado” ed è «legato a tre soggetti, che erano gli unici in grado di riferire sulla sua persona». Sono tre “fratelli” massoni, uno dei quali, Giuseppe Siciliano, finito agli arresti perché ritenuto un uomo del clan di Ardore. Insieme a loro, affratellati ai notabili della zona, c’erano anche Giuseppe Varacalli, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni.
Anche Giuseppe Varacalli non è un personaggio di poco conto nell’organigramma mafioso della zona. Ma per i “fratelli” riuniti all’ombra di squadra e compasso è solo un “cavaliere” dell’ordine massonico nato sull’isola di Malta, dove – stando a una conversazione intercettata – avrebbe ricevuto la sua investitura. L’inizio di un percorso che in seguito lo porterà alla loggia Zaleuco di Locri, ma che si interromperà bruscamente – si presume – nel 2008, quando Varacalli verrà accusato di aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle. Tutte circostanze che per gli inquirenti non fanno che confermare una tesi che la Dda porta avanti da tempo: «Il contatto con gli ambienti massonici costituisce un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicina a quelle componenti della società italiana che costituiscono i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale».

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