La fotografia dinamica di un clan sconfitto ma ancora operativo, costretto a spostare il baricentro dei propri interessi e affari 600 chilometri più a nord, ma con testa e direzione saldamente e coscientemente piantati nella Piana di Gioia Tauro per continuare a manifestare la propria piena operatività e mantenere peso e ruolo: c’è tutto questo nelle oltre mille pagine di ordinanza che hanno spedito dietro le sbarre le giovani leve del clan Molè, i loro sodali, complici e gregari. In 53 sono finiti in manette accusati a vario titolo di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, traffico, detenzione e spaccio di droga e di armi, con decine di episodi di cessioni di stupefacente contestato.
Si tratta di un’indagine certosina che si inserisce nel solco già tracciato dalle inchieste Porto, Tempo, Tirreno e Cent’anni di storia e immortala un momento ben definito nella storia del clan: la ripresa delle funzioni direttive ed organizzative dei principali suoi esponenti dopo la conclusione del procedimento abbreviato “Cent’anni di storia”. È un momento duro per il clan: l’omicidio di Rocco Molè, avvenuto nel febbraio 2008 secondo gli investigatori per ordine degli stessi Piromalli alla cui ombra i Molè erano cresciuti, ha messo per la prima volta la cosca di fronte a una situazione inedita che lo stesso gip sottolinea: «Per la prima volta nella loro storia hanno dovuto accettare lo scomodo ruolo dei soccombenti e, dunque, si sono confrontati con la necessità di riorganizzarsi».
Decide sempre don Mommo A dare la linea su come il clan dovesse muoversi per uscire dall’impasse è lo stesso boss Girolamo “Mommo” Molè, che dal carcere di Secondigliano non esita a impartire precise direttive ai familiari nel corso di un colloquio registrato e valorizzato dagli investigatori. «Erano tutti piccolini … hanno preso e sono andati via – dice ai familiari il boss come se parlasse di storie antiche e quasi dimenticate – hanno deciso di andare a Roma hanno preso una casa… nascosti in campagna. Ogni tanto scendevamo io … e mio fratello Nino … io e mio fratello … poi abbiamo cominciato a uno … uno ed abbiamo fatto una cosa (..)Hai visto? Le cose purtroppo ci vuole tempo». Con il suo tipico modo di parlare, in terza persona, indiretto, obliquo, don Mommo Piromalli ordina alla famiglia di allontanarsi temporaneamente da Gioia, verso Roma, senza dimenticare di tornare di tanto in tanto, e nel frattempo raccogliere i danari e le forze. «Una risposta non si darà mai se non sei sicura che gliela puoi dare … che quando tu … loro sei 7-8 e ti danno uno schiaffo! È meglio che tu te lo tieni che tu gli dai lo schiaffo … perché te ne danno altri 100 schiaffi … tu stai e tienitelo … incassalo… quando gliela puoi dare e sei sicuro … è così». È lucido il boss, sa che da uno scontro con i Piromalli la sua famiglia uscirebbe pesantemente sconfitta, per questo invita alla calma e a spostare tutte le attività in un altro territorio, dove recuperare soldi e quattrini per una vendetta solo dimenticata. La scelta cade su Roma, a livello criminale – sottolinea il generale Mario Parente, comandante nazionale del Ros, ancora “aperta”, in cui non esistono – o meglio non esistevano – organizzazioni ramificate e in grado di reagire con troppa durezza alla colonizzazione da parte di un clan. «Dall’attività – sottolinea Parente – emerge ancora una volta la capacità della ‘ndrangheta di operare fuori dalla propria regione d’origine, non solo infiltrando, ma anche replicando i medesimi modelli del territorio da cui proviene in quello in cui si insedia».
Gli affari dei Molè a Roma. Le slot Nel Lazio, i Molè si infilano subito nel fiorente business delle slot machine, di cui – sottolinea il procuratore capo Federico Cafiero De Raho – «nel giro di breve tempo arrivano ad acquisire la gestione quasi monopolistica sul litorale romano, tra Roma e Ostia». Un’infezione mascherata in modo raffinato – segnala il generale Parente – grazie alla joint venture di più imprese, tutte amministrate da Giuseppe Galluccio, che grazie a un sistema di telecamere riusciva a monitorare l’andamento di tutti gli esercizi commerciali dalla sua casa di Gioia Tauro. Un “grande fratello” criminale che evitava agli uomini del clan numerose trasferte e il rischio di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine con visite troppo regolari o frequenti.
Gli affari dei Molè a Roma. La droga Ma il nuovo business delle slot, non ha indotto il clan a rinunciare a quelle che sono sempre state le attività tradizionali: il traffico di armi e di droga. «Per la droga – spiega De Raho – abbiamo individuato tre distinti canali di approvvigionamento: l’hashish arrivava per decine di chili al mese dalla zona di Vibo, controllata dal clan Mancuso, la cocaina arrivava dall’Albania, mentre un ulteriore canale faceva arrivare lo stupefacente dal Marocco, passando per Spagna e Francia». Quintali di stupefacenti di diverso tipo che venivano smerciati su Roma e provincia sotto l’attenta regia di Arcangelo Furfaro, l’uomo scelto dal clan per gestire la conduzione operativa delle attività di narcotraffico. A sceglierlo era stato ancora una volta il capo storico del clan, Mommo Molè attraverso una lettera spedita al fratello recluso Domenico nell’ aprile del 2012. «Quel faccia tosta del piccolo come saprai è insieme da 4-5 anni assieme alla figlia di non mi ricordo il nome ma la sorella di Lino Furfaro nostro compagno di scuola». Un riferimento quasi casuale alle vicende sentimentali del figlio minore di don Mommo – arrestato su richiesta della Procura dal gip presso il Tribunale dei minorenni nell’ambito di questa operazione – che non ha ingannato gli inquirenti. Con quella lettera, il boss aveva indicato in Furfaro – personaggio non direttamente riconducibile al clan, ma controllato da vicino dal futuro giovanissimo cognato – l’uomo demandato alla gestione dello spaccio nella capitale. Mentre testa e direzione strategica rimanevano ben saldi nella Piana, due anonimi appartamenti del centralissimo quartiere di San Giovanni, distanti appena 100 metri l’uno dall’altro, erano diventati il centro di raccolta e smistamento della droga su Roma. Qui infatti arrivava regolarmente il ristretto gruppo di sodali incaricati di portare la droga dalla Calabria, come pure si facevano vedere spesso per monitorare la situazione i due figli di Molè, Antonio (cl.89) e il fratello minore, ma anche rappresentanti della cosca vibonese dei Mancuso, come il giovane Giuseppe Salavatore, figlio del boss Luni Mancuso, e del gruppo albanese.
Gli affari dei Molè a Roma. Le armi E la droga non era l’unico settore di business in cui i Mancuso e i Molè fossero partner. Il più giovane dei figli di don Mommo era infatti parte attiva della compravendita delle armi che venivano acquistate in provincia di Vibo Valentia, mentre erano l’armiere del clan Giuseppe Belfiore – ufficialmente semplice meccanico di Gioia Tauro – e il figlio Marino, ad avere aperto un canale di approvvigionamento con l’Europa dell’est. Qualche mese fa, nel marzo 2014, proprio quest’ultimo è stato fermato nelle campagne di Rizziconi con l’auto carica di armi provenienti dalla Slovacchia, tra kalashnikov, fucili, pistole con matricola abrasa e relativo munizionamento. All’epoca, il rinvenimento dell’arsenale aveva fatto scattare l’allarme su un possibile progetto di attentato destinato a colpire uomini delle istituzioni. «Le indagini e le attività tecniche che stanno alla base di quest’indagine si riferiscono solo al 2011- 2012 quindi non abbiamo elementi recenti che ci diano indicazioni – afferma Cafiero de Raho – ma proprio l’estrema facilità con cui queste persone si dedicano a traffico e lavorazione di armi non deve indurre ad abbassare la guardia».
Alessia Candito
x
x