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OPERAZIONE MAUSER | Il calvario di Giuseppina

REGGIO CALABRIA Doveva informare e chiedere permesso, consiglio e assistenza anche per la scelta del proprio medico di base. Non poteva uscire di casa neanche per accompagnare le figlie a scuola o …

Pubblicato il: 31/07/2014 – 14:09
OPERAZIONE MAUSER | Il calvario di Giuseppina

REGGIO CALABRIA Doveva informare e chiedere permesso, consiglio e assistenza anche per la scelta del proprio medico di base. Non poteva uscire di casa neanche per accompagnare le figlie a scuola o in ospedale per i regolari controlli che almeno una di loro era obbligata a fare, tanto meno poteva andare a i visitare i genitori o loro potevano andare da lei oltre l’orario stabilito, segnato dal giro di chiave con cui veniva letteralmente segregata in casa di notte. Solo scortata da cognati o altri familiari poteva andare persino al cimitero per piangere sulla morte del marito Antonio Cacciola, il cui suicidio le aveva spalancato le porte di un inferno in cui si era ritrovata prigioniera, ostaggio dei familiari dell’uomo che amava e contro i consigli della propria famiglia aveva deciso di sposare, continuamente minacciata di morte e resa impotente dalle continue intimidazioni che arrivavano all’indirizzo delle figlie, che i Cacciola avrebbero voluto sottrarle definitivamente. Ha dovuto toccare il fondo, tentare il suicidio lasciandosi annegare nel mare invernale di San Ferdinando, prima di decidere di reagire, tirarsi fuori dall’acqua e da una vita che iniziava a starle troppo stretta, Giuseppina Multari, la collaboratrice che con le proprie rivelazioni oggi ha inchiodato sedici fra capi e gregari del clan Cacciola di Rosarno, accusati oggi non solo di reati di droga, ma anche sequestro di persona e riduzione in schiavitù.

 

Quel matrimonio sbagliato
Una fattispecie pesantissima, ma che il gip Scortecci, su richiesta del pm Alessandra Cerreti, ha voluto riconoscere a carico degli aguzzini di Giuseppina, che su di lei esercitavano «poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, limitandone la libertà di locomozione e annientandone, con espresse minacce e violente pressioni psicologiche, la capacità di autodeterminazione». Sposata a 20 anni e poco dopo già madre di tre bambine, legata a un uomo fragile, depresso, dedito all’alcool e forse alla droga, a tratti violento verso sé e verso gli altri, per giunta infedele perché legato – almeno negli ultimi mesi di vita – a un’altra donna, da vedova Giuseppina diventa ostaggio. «La sera in cui il marito si è suicidato ed esattamente il 13 novembre 2005 – racconterà ai carabinieri, quando finalmente libera dal giogo dei suoi oppressori inizierà a collaborare – nulla nel suo comportamento lasciava presagire quel suo gesto (…) Dopo circa una mezz’ora è salito a casa mia mio suocero per comunicarmi minacciosamente che mio marito era morto. Disse precisamente: “Se mio figlio si è ammazzato per te io ammazzo te”».

 

Quotidiana abiezione
Minacce che saranno solo le prime di una lunga serie per Giuseppina, la cui vita da quel momento si è trasformata in un rosario di vessazioni psicologiche, privazioni, divieti, costrizioni. Non poteva andare a fare la spesa, accompagnare le figlie a far compere o all’edicola e persino per andare a far visita al padre dopo un grave malore Giuseppina ha dovuto impuntarsi e chiedere il permesso perché qualcuno dei suoi familiari potesse andare a prenderla per accompagnarla in ospedale. L’unico posto in cui potesse liberamente andare – racconta ai magistrati dopo essere entrata nel programma di protezione – era «un pezzettino di terra appartato là dove non c’era nessuno all’infuori degli animali, e andavamo spesso, perché le bambine uscivano di casa, anche per andare in quell’angolino con la loro mamma; e perché c’era un animale, e quel cavallo era come se fosse l’unico essere vivente, l’unica persona, meglio di una persona, a capirmi, parlavo solo con Margherita, la cavalla, perché le altre parole era meglio tenersele dove stavano, perché se una volta azzardavo una parola [ … ] succedeva [ … ] il finimondo (…) da là si aprivano accuse allucinanti nei miei confronti».

 

Il punto di non ritorno
Forse per le bambine, soprattutto quella così fragile da necessitare accurata terapia, continui controlli e visite specialistiche, forse perché in fondo ha poco più di trent’anni e quella vita rubata la vuole vivere comunque, Giuseppina stringe i denti e nonostante le minacce, gli insulti, le continue accuse di essere la reale responsabile della morte del marito, sopporta tutto. O almeno riesce a farlo fino all’11 febbraio, quando la suocera le sottrae le figlie per portarle alla cerimonia di fidanzamento del figlio Gregorio Cacciola. «Un giorno li vedo strani e mi trattano peggio degli altri giorni, salgono si prendono le bimbe domando dove le portano, e mi rispondono al fidanzamento di Gregorio che giustamente non vuole tra i piedi l’assassina del fratello. E quella maledetta sera sono andata a buttarmi a mare, ma è come se avessero messo le chiavi in mano loro. Quella sera ero stanca, disperata continuavo ad andare dentro l’acqua, quando penso alle bambine e mi rendo conto di quello che stavo facendo, e credevo di non riuscire più a tornare a casa ero come un pezzo di ghiaccio», racconta Giuseppina ai magistrati ricostruendo quel giorno. A salvarla sarà il fratello Angelo, cui disperata chiede aiuto non solo perché intirizzita, spaventata e disperata nel freddo di una notte di febbraio, ma soprattutto perché determinata a fuggire dalla prigionia impostale dalla famiglia Cacciola. Ma Angelo non potrà aiutarla. Da quella notte maledetta, di lui si perdono le tracce.

 

La scarcerazione del boss e le minacce di morte
Dovranno passare mesi – si arriverà a settembre – perché Giuseppina trovi il coraggio di redigere una lettera con cui denuncia le vessazioni subite e che, tramite il padre, farà arrivare ai carabinieri di Rosarno. Mesi di vessazioni, insulti, accuse, minacce che arrivano a toccare anche il fratello Antonio da tempo residente in Germania, inviso alla famiglia Cacciola «perché gli avevano offerto un “lavoro” e lui ha detto di no», dice la donna agli inquirenti. Minacce che diventano un timore concreto quando il suocero di Giuseppina, esce dal carcere. Terrorizzata racconterà infatti ai carabinieri: «Ora è uscito mio suocero dal carcere e so già i progetti che ha (…omissis…). Tutti i numeri degli ospedali di Marty addirittura mi hanno fatto prenotare a Genova e mi hanno dato l’appuntamento per dicembre, e mia suocera si arrabbiò tantissimo perché dice che entro settembre la bambina deve fare il controllo. Tempo fa mia suocera mi chiede quante pastiglie prende Martina, gli ho detto quante e come le preparo. Fino a oggi gli antiepilettici alla bambina li avevo dati solo io, adesso sanno come fare anche loro, quel giorno quando mi domandava dei farmaci sembrava un angelo mia suocera. (…omissis…). L ‘altro giorno litigo con mia cognata per le bimbe, arrivate a casa lo racconta a mia suocera. “Bonu tantu simu all’ultimo” che significa per voi?». Giuseppina teme che la famiglia Cacciola voglia ucciderla e farla sparire, per questo trova il coraggio di presentarsi dagli investigatori disposta a raccontare tutto quello che sa. Non solo del trattamento disumano che le viene inflitto.

 

Il traffico di droga
Ma soprattutto delle attività illecite della famiglia che conosce dall’interno. Dichiarazioni che si incastrano con quelle del pentito Salvatore Facchineri, e permettono di individuare in Giovanbattista Cacciola, il regista di quel traffico di droga che la sua famiglia, insieme ai Curmace, aveva organizzato fra la Germania e l’Olanda e la Calabria. È infatti a Rosarno che arrivavano le ingenti quantità di cocaina acquistata in Olanda, quindi trasportata attraverso auto prese a noleggio, prima presso la base logistica in Germania e poi a Rosarno. Carichi più volti intercettati dagli investigatori, che nei mesi hanno raccolto le prove che oggi permettono di affermare che la famiglia Cacciola gestiva il traffico di cocaina attraverso membri residenti in Germania dei Curmace-De Maria, i quali per conto del clan acquistavano la droga dal fornitor
e olandese Marc Feren Claude Biart, per poi importarla a Rosarno attraverso l’azienda denominata “Rosarnese”. Traffici di cui si parlava in famiglia e che Giuseppina ha potuto riferire in dettaglio agli investigatori, insieme alla sua storia di ordinaria vessazione.

 

Il cammino da percorrere
«Nelle famiglie di ndrangheta – sintetizza il procuratore Federico Cafiero De Raho – assistiamo ad un comportamento violento, che sembra ricordare i tempi della donna oggetto, della donne schiave, della preistoria. La cultura è talmente lontana da annullare addirittura i sentimenti più fondamentali della nostra vita, come l’amore familiare. Ci troviamo davanti a tanti anni di storia che dobbiamo percorrere in questa terra per recuperare quella cultura che consente di andare uniti e marciare insieme nella stessa direzione». Un percorso lungo, ma che restituendo dignità e giustizia a donne come Giuseppina, ha mosso i primi passi.

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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