REGGIO CALABRIA È con una sentenza clamorosa che si conclude il processo “Cosmos”, scaturito dall’inchiesta che sembrava aver svelato il regime di estorsioni che il clan Libri avrebbe imposto alla ditta Bentini, impegnata nei lavori per la costruzione del nuovo tribunale di Reggio Calabria. Estorsioni che per il Tribunale presieduto da Matteo Fiorentini in realtà non ci sono. Escono infatti assolti con formula piena dai reati di estorsione e concorrenza illecita sia il boss Pasquale Libri, sia l’imprenditore Edoardo Mangiola, proprietario del bar Senzatempo che per i pm sarebbe stato forzosamente individuato dai vertici della Bentini come mensa aziendale. Ma cade – perché “assorbita” da altre sentenze e procedimenti – l’accusa di associazione mafiosa a carico del boss. Mentre Mangiola per il medesimo reato incassa 15 anni di carcere, uno in più di quanto chiesto dal pm Massimo Baraldo. Per l’ex titolare del bar Senzatempo è stato confermato anche il sequestro del locale.
A mettere gli inquirenti sulle tracce dei Libri, è stato l’incendio del 3 gennaio 2008 ai danni del bar Millevoglie, andato completamente distrutto, appena completati i lavori di ristrutturazione. Nonostante il titolare avesse ossequiato le ditte della zona, roccaforte dei Libri, affidando loro i lavori, il clan non aveva gradito i propositi del titolare del bar distrutto, di avviare un servizio di tavola calda. Un business che avrebbe complicato non poco le attività del vicino e diretto concorrente bar Senzatempo, gestito da Edoardo Mangiola, considerato dagli inquirenti un uomo della cosca Libri.
Sospetti confermati dalle rivelazioni di due nuovi collaboratori, Tiziana Ventura, l’ex moglie di Mangiola, e il giovane amante di lei, Umberto Paviglianiti. Ascoltata a poco più di un anno dall’esecuzione dell’operazione “Cosmos”, la donna – nonostante la paura di ritorsioni – ha deciso di collaborare con i pm. «Sono stata molto combattuta e frenata dalla paura che l’eventuale ritrovamento delle armi fosse a me addebitato e quindi sarei potuta essere oggetto di ritorsione. La stessa paura adesso che sto riferendo questi fatti anche se sono assieme alle forze dell’ordine». Delle attività del marito la donna non sembra averne mai saputo molto, ma dopo il suo arresto – ha raccontato ai magistrati – ha iniziato a comprendere il significato di quei comparati cui Mangiola tanto teneva con gli uomini del clan Libri.
Più precise, circostanziate e potenzialmente devastanti sembrano – almeno allo stato – le dichiarazioni del compagno, Umberto Paviglianiti che confermerà agli inquirenti che Mangiola era coinvolto in diversi rami dell’illecito, dalle armi a strani traffici, fino ad arrivare alle delicate imbasciate che lo costringevano persino a viaggiare per conto del clan. Circostanze che non hanno stupito più di tanto l’uomo – coinvolto in un piccolo traffico di droga gestito da Mangiola – ma all’epoca incapace – a suo dire – di immaginare la caratura criminale di colui che almeno formalmente era il semplice proprietario di un bar. A illuminarlo sarebbe sarebbe stato Claudio Bianchetti, cui Paviglianiti avrebbe confidato di aspirare ad aprire un’autocarrozzeria e proprio in quell’occasione avrebbe ottenuto consigli – o meglio istruzioni – precise: «Mi disse che era opportuno parlare di questa mia intenzione con Mangiola Edoardo, che era suo compare. Nessuno mi disse apertamente che il Mangiola era il referente di zona, ma per come ho successivamente compreso in virtù della sua frequentazione, posso oggi affermare che il Mangiola era referente di quella zona per la cosca Libri».
E sarà proprio lui a proporgli l’ingresso formale nella ‘ndrangheta: «Mi disse che avrebbe avuto piacere di farmi “un fiore”, seppure non sia stato esplicito ho compreso chiaramente che con detta espressione gergale questi vuole essere iniziarmi nel percorso della ‘ndrangheta. […] Io risposi seccamente ad Edoardo: “Tu così mi vuoi bene?” e l’uomo sorridendo mi rispose che ne avremmo parlato più in là».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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