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BACINELLA 2 | Colpo ai Commisso: 18 in manette

REGGIO CALABRIA Associazione mafiosa, usura, esercizio abusivo del credito, ma anche un caso di violenza privata: sono questi i reati contestati a vario titolo ai diciotto presunti appartenenti del…

Pubblicato il: 26/05/2015 – 6:01
BACINELLA 2 | Colpo ai Commisso: 18 in manette

REGGIO CALABRIA Associazione mafiosa, usura, esercizio abusivo del credito, ma anche un caso di violenza privata: sono questi i reati contestati a vario titolo ai diciotto presunti appartenenti della cosca Commisso arrestati nell’ambito dell’operazione “Bacinella 2”, che ha sgominato il colossale giro di usura gestito dal clan a Siderno, Bianco, Mammola e Grotteria, portando anche al contestuale sequestro di beni per oltre tre milioni di euro. «Quello che ancora una volta emerge da quest’indagine – ha detto il Procuratore capo della Dda di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho – è la disponibilità degli imprenditori ad aderire a contratti usurari che arrivano anche al 120 per cento annuo. Questo è un indice della condizione psicologica disastrata in cui operano questi soggetti, che si vedono negata qualsiasi altra possibilità di accedere al credito». Ma quella che molti imprenditori considerano l’ultima spiaggia, l’ultima risorsa pur di salvare il proprio negozio o la propria azienda, altro non è che un biglietto di sola andata verso l’inevitabile perdita dell’attività. Un “reato odioso” per Cafiero de Raho, che quando è gestito dalla ‘ndrangheta si svolge anche sotto una cappa impenetrabile di silenzio.

IL REGNO DELL’OMERTÀ

«È un’attività che si è svolta in totale regime di omertà. Non c’è stata nessuna denuncia, e almeno la metà degli imprenditori che sono stati convocati dalla finanza, hanno negato anche l’evidenza. Non a caso, per quattro di loro sono stati disposti gli arresti domiciliari. Questo dimostra la capacità della ‘ndrangheta di soggiogare il contesto sociale in cui si radica». In manette sono finiti 12 uomini della ‘ndrina “Rumbo-Galea-Figliomeni”, articolazione della cosca Commisso, attiva nella locride, ma anche a Toronto, in Canada, mentre per sei persone il gip ha disposto i domiciliari. Fra di loro, non ci sono soltanto i presunti favoreggiatori della latitanza di Davide Gattuso, ma anche quattro imprenditori – Domenico Audino, Francesco Racco, Salvatore Ursino e Giuseppe Saverio Zoccoli – accusati di favoreggiamento personale pluriaggravato, perché da vittime degli usurai si sono convertiti in complici.

IMPRENDITORI COMPLICI

«Nonostante gli contestassimo le conversazioni ambientali che abbiamo registrato in ambientale – sottolinea il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, che insieme al pm Antonio De Bernardo ha coordinato l’indagine – hanno continuato a negare anche di fronte l’evidenza. Questo si deve al fatto che dietro questo giro di usura ci sono i Commisso, un clan dell’èlite della ‘ndrangheta reggina, e al grado di omertà tombale che sono in grado di imporre». Sebbene per lungo tempo sia stata un’attività che nella perversa logica mafiosa veniva considerata «disonorevole» fino a venticinque – trent’anni fa e lasciata a malavitosi di mezza tacca, «da quando si è scoperto che può convertirsi nel modo più semplice per fare riciclaggio» – spiega Gratteri – anche ‘ndrine storiche come i Commisso sono entrate nel business, con i propri massimi vertici. Non a caso, è il gotha del clan a essere finito dietro le sbarre.

NUOVI BUSINESS, NUOVI RUOLI

«Fra gli arrestati c’è il gotha della cosca Commisso, ma anche Riccardo Rambo che 25 anni fa, ai tempi della faida di Siderno con i Costa, era il capo dei cinquecento killer del clan, ma oggi ha cambiato ruolo. Dal carcere, attraverso il figlio riesce a mandare messaggi di morte, organizzare i giri di usura, organizzare strategie. Questo vuol dire che è arrivato al vertice del clan, anche perché negli anni Siderno è stata colpita da diverse indagini». Un dato di cui gli inquirenti sono in possesso anche grazie alle indagini storiche sui clan delle Locride, che non sono iniziate con la maxioperazione Crimine, né lì – sottolinea Gratteri – si sono fermate. «Dopo “Crimine”, ci sono state almeno quattro grosse operazioni che hanno toccato la pubblica amministrazione, l’usura, i trafficanti di droga e il clan».

 

IL “MOMENTO MAGICO” DELLA GUARDIA DI FINANZA

Un risultato ottenuto anche grazie a quello che il procuratore aggiunto non esita a definire il «momento magico» della Guardia di Finanza, che nonostante le indagini si facciano sempre più complesse, anche a causa delle precauzioni che gli uomini dei clan, hanno imparato a prendere, «sono in grado di trovare riscontri al millesimo delle ipotesi di reato per cui procediamo». La base dell’organizzazione individuata dai militari è il principale distributore di benzina di Siderno, oggi finito sotto sequestro. «È un’attività che a noi crea notevoli difficoltà perché l’attività viaggia tutta per contanti, una considerevole quantità di contanti», riferisce il tenente colonnello William Vinci, che con i suoi uomini è riuscito però ad individuare il giro di prestiti a strozzo che si nascondeva sotto la regolare attività commerciale. «La mattina arrivava la richiesta dell’usurato, alle 13- 14 arrivavano i ventimila, trentamila euro in contanti che erano stati chiesti. E questo permette solo di immaginare la straordinaria disponibilità di denaro che ha l’organizzazione». Ma grazie alle verifiche incrociate dei militari della Finanza, unite alla capillare attività sul campo, è stato possibile risalire alle vittime strozzate dal clan.

 

LE VITTIME DEL CLAN

«Si tratta di imprenditori edili e commerciali non solo della zona – spiega ancora Nicola Gratteri – ma anche di Mammola, Locri, Portigliola. Uno di loro, che non riusciva a pagare e per questo è stato anche malmenato, si è rivolto agli Aquino per avere protezione e cercare di strappare uno sconto. Un altro era un imprenditore molto ricco di Locri, molto potente, messo anni fa in ginocchio dalla necessità di pagare un riscatto per il sequestro del figlio. Da allora, né lui né la sua azienda sono mai riusciti a risollevarsi, probabilmente anche perché insieme alla famiglia ha continuato ad avere il medesimo tenore di vita, anche quando non poteva più permetterselo ed è da quindici anni che il suo nome viene fuori nei processi di usura, anche perché probabilmente non hanno mai modificato il proprio tenore di vita», ha continuato Gratteri. «Noi – ha detto ancora il procuratore – quando ci troviamo di fronte imprenditori usurati li invitiamo sempre a denunciare, non solo perché per loro sarà impossibile restituire gli interessi del prestito che hanno contratto, ma anche perché il clan nei due, tre anni di agonia che concede in attesa di prendersi l’azienda di chi strozza, riduce gli imprenditori a delle larve, li distrugge psicologicamente». Telefonate notturne, minacce che si estendono anche ai familiari, intimidazioni, pestaggi: questi sono i metodi classici utilizzati dai clan per pretendere la restituzione dei soldi prestati a strozzo. «Noi lo spieghiamo sempre, sottomettersi ai clan, non denunciare vuol dire rischiare di perdere anche i propri affetti, la famiglia, perché una situazione del genere diventa insostenibile per chi vive a fianco dell’imprenditore estorto. Noi lo ripetiamo sempre, meglio fallire che sottomettersi agli strozzini».

 

L’AGGRESSIONE A TERESA FIGLIOMENI

Ma il vocabolario della violenza che gli usurai sanno imporre, spesso riesce a zittire e piegare tutti. Non ha ridotto al silenzio Teresa Figliomeni, ex moglie di Cosimo Figliomeni, malmenata dal cognato Davide Gattuso e dai sodali del clan, perché “colpevole” di aver chiesto gli alimenti al marito, da anni latitante in Canada. «Si è avventato su di me e ha cominciato a percuotermi; in particolare, per circa cinque minuti, dopo avermi scaraventato a terra, mi ha preso a pugni, calci, mi ha preso dai capelli, mi ha stretto le mani al collo, i colpi che ho sentito di più sono stati all’addome ed alle gambe. Mentre mi colpiva – si legge nelle dichiar
azioni messe a verbale all’epoca – minacciava di ammazzarmi, mi intimava di stare zitta perché io urlavo. Gattuso non si è fermato neanche quando ha udito le urla di mio zio e del figlio di sette anni». Solo grazie all’intervento della cognata, la donna riuscirà a fuggire, precipitandosi dai Carabinieri per denunciare quanto successo. Ma la determinazione a procedere contro il cognato non avrà lunga durata. Ai magistrati che qualche mese dopo la interrogheranno dirà: «Quella sera ho sporto denuncia perché pensavo che Gattuso Davide potesse essere subito arrestato per quello che mi aveva fatto. Adesso che mi sono resa conto che così non è stato, non ho più interesse a procedere oltre contro di lui e lascio che venga giudicato da Dio». Nell’attesa di un ipotetico giudizio eterno, ci ha pensato il gip, che anche per quest’episodio di violenza per lui ha disposto la custodia in carcere.

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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