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I clan nell'import-export, undici condanne

REGGIO CALABRIA Regge solo parzialmente l’impianto accusatorio alla base del procedimento “Puerto Franco”, scaturito dall’operazione che ha permesso di scoprire come i clan avessero di fatto messo le…

Pubblicato il: 23/02/2016 – 18:23
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I clan nell'import-export, undici condanne

REGGIO CALABRIA Regge solo parzialmente l’impianto accusatorio alla base del procedimento “Puerto Franco”, scaturito dall’operazione che ha permesso di scoprire come i clan avessero di fatto messo le mani sui servizi connessi alle operazioni di import-export e di trasporto merci per conto terzi. Sebbene il gup abbia riconosciuto l’esistenza di un’associazione mafiosa in grado di creare una sorta di monopolio nel settore dei trasporti, attraverso una serie di aziende formalmente e fittiziamente intestate ad affiliati di fila o a compiacenti prestanome, l’accusa è caduta per molti degli imputati cui era contestata.

LE CONDANNE La pena più alta va a Salvatore Rachele, punito con 12 anni, mentre è di 11 anni e 6 mesi la condanna inflitta ad Antonio Franco. Dovranno invece scontare tutti 10 anni ciascuno Rocco Rachele, Salvatore Pesce, Giuseppe Franco e Franco Rao, mentre è di 6 anni e 4 mesi la pena decisa per Domenico Canerossi . Sei anni vanno a Giuseppe Florio, mentre è di 5 anni e 6 mesi la condanna stabilita per Bruno Stilo. Dovrà invece scontare 4 anni Francesco Oliveri, mentre è stato punito con 2 anni di carcere Marco Mazzitelli. Cadono invece tutte le accuse, nonostante le severe richieste di condanna, per Gaetano Rao, Antonino Pesce, Vincenzo Pesce e Rocco Pesce, mentre vengono assolti da contestazioni minori Salvatore Luccisano, Andrea Franco Espedito, Giuseppe De Masi, Antonia Franco, Roberto Matalone, Filippo Scordino e Domenico Tocco

LE INDAGINI Bisognerà attendere le motivazioni per comprendere cosa non abbia convinto il gup delle accuse mosse ai singoli indagati, ma già la lettura del dispositivo sembra confermare l’ipotesi alla base dell’inchiesta. Per il pm Giulia Pantano, i clan e le loro imprese hanno infettato la logistica a Gioia Tauro, non solo imponendosi a soggetti terzi come interlocutore unico nel settore, ma anche come “lavanderie” in grado di generare un’enorme liquidità attraverso la contabilizzazione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Soldi che finivano poi per essere corrisposti agli elementi di spicco delle cosche Pesce e Molè che passavano regolarmente all’incasso. Manovre rese possibili anche dalla creazione di una serie di fittizie cooperative di lavoro, costituite all’unico scopo di far evadere le imposte alle imprese riconducibili alle cosche mafiose, nonché per consentire la fuoriuscita di flussi finanziari delle aziende della ndrangheta, tramite fatture relative ad operazioni inesistenti.

SOLDI PER I CLAN SULLA PELLE DI CHI LAVORA Il meccanismo era semplice. L’azienda di trasporti riconducibile ai clan “girava” la commessa ottenuta – o meglio pretesa in nome della caratura criminale della propria famiglia – alla cooperativa, dribblando così oneri contributivi e fiscali nei confronti dei lavoratori, che non figuravano come dipendenti, ma soci di una coop cui venivano ceduti i mezzi in comodato d’uso. Il trucchetto permetteva dunque di mettere sul mercato forza lavoro a prezzo di ribasso, con notevole danno per tutti gli altri operatori del settore, tagliati fuori perché impossibilitati a praticare prezzi altrettanto concorrenziali.

a. c.

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