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Aterp, il buco nero dei fondi ex Gescal

La sigla Gescal forse potrà non dire nulla a chi è nato e cresciuto nell’ultimo ventennio, ma dirà molto, invece, a tutti i lavoratori dipendenti che, nell’arco di più di trent’anni, si sono visti …

Pubblicato il: 03/03/2016 – 16:00
Aterp, il buco nero dei fondi ex Gescal

La sigla Gescal forse potrà non dire nulla a chi è nato e cresciuto nell’ultimo ventennio, ma dirà molto, invece, a tutti i lavoratori dipendenti che, nell’arco di più di trent’anni, si sono visti trattenere dallo stipendio una quota di contributi destinati per legge a questo fondo. Si tratta di soldi che dovevano servire a costruire nuove case popolari, o ad effettuare la manutenzione di quelle già esistenti, o al limite ad espropriare i terreni su cui costruire gli immobili. Quando la competenza sul fondo ex Gescal passò, negli anni ’90, dal governo alle Regioni, la Calabria poteva contare su un tesoretto di oltre 200 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico, su cui ora la giunta regionale sembra voler fare chiarezza. Ieri, infatti, su proposta dell’assessore Musmanno, l’esecutivo ha avviato una ricognizione per capire come siano stati utilizzati questi fondi, ma il Corriere della Calabria aveva rivelato già a novembre 2014 (numero 175 del settimanale) che in realtà i soldi provenienti dalle buste paga dei lavoratori venivano (e vengono tuttora) spesi per finalità che hanno poco a che vedere con gli scopi a cui erano destinati.
A Vibo, per fare un esempio, sono stati utilizzati per coprire almeno il 60% dell’acquisto della sede (costata 2,8 milioni di euro) in cui l’Aterp, già destinata all’accorpamento in unico ente regionale, era in affitto. Ma anche gli altri enti territoriali, oggi accorpati, non si sono fatti mancare nulla facendo ampio ricorso a short list, incarichi, consulenze, premi.
Ora la Regione vuole vederci chiaro, ma potrebbe essere troppo tardi per cercare di fare un po’ di luce nel buco nero che negli anni si è creato sui fondi ex Gescal. Intanto perché una fetta molto consistente del tesoretto è stata già spesa – e bisognerà capire come –, ma soprattutto perché parte di questa fetta sarebbe stata addirittura stornata su altri settori che poco hanno a che vedere con l’edilizia residenziale pubblica. Se così fosse, ci si troverebbe di fronte a una gestione quantomeno spregiudicata di soldi, tanti, presi direttamente dalle tasche dei lavoratori per dare un tetto a chi non ce l’ha e spesi, invece, per tutt’altro.

LA STORIA DI UN TESORETTO DA 200 MILIONI Nato dalle ceneri della riforma Fanfani del 1949, istituito con la legge (60 del 4 febbraio 1963) che sancì la liquidazione del patrimonio edilizio di Ina-Casa, il piano Gescal (Gestione delle case per i lavoratori) era un programma decennale che aveva un unico obbiettivo, molto chiaro: la costruzione di alloggi popolari per quei lavoratori che una casa non ce l’avevano. L’ente fu soppresso nel 1973, ma la Gescal sopravvisse comunque come trattenuta dallo stipendio.
Si tratta di un classico esempio di tassa di scopo, in questo caso finanziata, oltre che da una quota di contributi statali, anche con lo 0,35% dello stipendio mensile del dipendente e con lo 0,70% della retribuzione pagata dal datore di lavoro. Così fino ai primi anni 90, quando la gestione del fondo cessò di essere appannaggio del ministero dei Lavori pubblici per passare sotto il controllo delle Regioni.
Fu la giunta Scopelliti-Stasi, nel marzo del 2014, a distribuire questo tesoretto, che nel frattempo era sceso a circa 150 milioni, agli enti che gestiscono il patrimonio delle aziende. Parte di questi soldi furono spalmati alle aziende attraverso il «programma operativo nel settore politiche della casa», un piano che in seguito venne rimodulato dallo stesso esecutivo di centrodestra con una nuova delibera da cui si scoprì che in realtà le risorse disponibili ammontavano a 122 milioni. Di questi, circa 10 milioni vennero destinati a effettuare la «ricognizione, la regolarizzazione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare». E non è un dettaglio, in una terra in cui il clientelismo (con i soldi pubblici) è stato elevato a sistema, che la giunta dell’epoca per effettuare questa ricognizione abbia autorizzato le stesse aziende «ad avvalersi di personale specializzato da reperire in conformità alle norme vigenti in materia».

Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it

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