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Clan e gioco online, 15 nuovi indagati

REGGIO CALABRIA Si allarga a quindici nuovi indagati l’inchiesta Gambling, l’indagine che ha svelato come i clan avessero trasformato il mondo delle scommesse e dei giochi online in una gigantesca la…

Pubblicato il: 05/06/2016 – 7:11
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Clan e gioco online, 15 nuovi indagati
REGGIO CALABRIA Si allarga a quindici nuovi indagati l’inchiesta Gambling, l’indagine che ha svelato come i clan avessero trasformato il mondo delle scommesse e dei giochi online in una gigantesca lavatrice di denaro sporco. Ai 99 indagati già noti, si aggiungono Giuseppe Lavilla, Maurizio Lavilla, Antonio Lavilla, Benedetto Bacchi, Antonino Irrera, Fabrizio Minniti, Rosario Antonio Minniti, Mario Vincenzo Stillitano, Giuseppe Zungri, Francesco Zungri, Rocco Restuccia, Marco Mosconi, Francesco Pesce e Francesco Chirico. In questi giorni, anche loro si sono visti recapitare l’avviso di conclusione delle indagini firmato dai pm Stefano Musolino , Giuseppe Lombardo, Sara Amerio e Luca Miceli. A meno di un anno dall’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare per i principali indagati – primo fra tutti il vertice dell’organizzazione, Mario Gennaro, oggi pentito – gli inquirenti sono certi di aver tracciato i confini della rete che i clan avevano tessuto nel mondo delle scommesse e dei giochi on line. E la sua estensione era di gran lunga maggiore di quanto si potesse inizialmente immaginare, così come molti più numerosi sono i clan coinvolti. BOSS E AFFILIATI Sul registro degli indagati sono finiti infatti i fratelli Antonio e Maurizio Lavilla, più il padre Giuseppe – ritenuti uomini del clan Tegano, già finiti al centro di diversi procedimenti giudiziari – con l’accusa di essere i reali titolari dell’American bar, una delle sale scommesse della rete, solo fittiziamente intestata ai fratelli Santucci. Ma per i Lavilla, l’accusa è anche di essere parte dell’associazione a delinquere nascosta dietro l’universo Betuniq. Insieme a loro, per i magistrati, è elemento di rilievo della medesima organizzazione Rocco Ficara, boss dei Ficareddi, accusato di essere il reale punto di riferimento per alcuni dei principali uomini della rete Betuniq, Terenzio Minniti, Vincenzo Nettuno e Rocco Ficara, e di una sala scommesse a essi collegata. Per Ficara però, l’accusa è anche di infiltrazione del suo clan nel settore edilizio, tramite l’azienda “Vadalà Annunziato”. L’organizzazione capeggiata da Gennaro poteva contare anche su un altro boss. Si tratta di Francesco Pesce, capo dell’omonimo clan, divenuto garante criminale della riscossione crediti maturati nelle sale e nei centri scommesse che nella Piana facevano riferimento al master – termine con il quale si designano gli organizzatori operativi della rete – Costantino Cristian Fortunato. GLI ALTRI INDAGATI Proprio della rete strutturata da quest’ultimo facevano riferimento Giuseppe e Francesco Zungri e a Rocco Restuccia, titolari di alcune della sale scommesse che hanno permesso ai clan di riciclare enormi quantità di denaro, mettendo in piedi un sistema di betting online parallelo e totalmente sconosciuto agli enti italiani preposti a controllo e regolamentazione del gioco d’azzardo. Per Marco Mosconi, collaboratore di Luca Gagni, uno dei principali “master” l’accusa è invece di aver collaborato e controllato le attività di raccolta illegale di scommesse, ma anche di aver aperto nuove agenzie, espandendo così la rete criminale dell’organizzazione. Per i pm, era invece un «componente del gruppo dirigente, in qualità di socio di fatto dell’associazione insediata a Malta e operante tramite la Uniq Group Ltd, Uniq Group Buchmacher Gmbh» Antonino Irrera, accusato di aver attivamente lavorato alla commercializzazione dei brand dell’associazione Betuniq in Sicilia, ma anche di aver gestito l’attività di concessione dei fidi e di raccolta fisica delle scommesse. Era invece socio della Betsolution4u e insieme a Antonino Lo Baido gestore diretto del sito B2875 Benedetto Bacchi, incaricato dall’organizzazione strutturata da Gennaro di curarne la distribuzione commerciale sul territorio. Ma promotore e organizzatore della rete commerciale di società riconducibili alla rete di Gennaro era anche Giuseppe Preiti, mentre per Fabrizio e Antonio Rosario Minniti l’accusa è di aver riciclato circa 244mila euro derivati dal gioco e delle scommesse illegali. IL SISTEMA Per gli inquirenti, tutti quanti erano a vario titolo terminali del sistema svelato dall’indagine Gambling. Un’inchiesta che ha mostrato in maniera plastica come il settore del gaming online sia divenuto preda dei clan reggini, fotografati per l’ennesima volta nella militarizzazione unitaria e coordinata di un business del tutto nuovo, ma aggredito con regole e meccanismi che – come svelato dall’operazione Meta – sono stati decisi ormai decenni fa e tali rimangono. Nuovi affari, vecchi metodi, storici obiettivi. Il mondo grande dei casinò online, sottratti al controllo dell’Aams, l’agenzia che in Italia dovrebbe vigilare sul settore, per i clan è diventato una gigantesca lavatrice che – al di là delle perdite che ogni operazione di riciclaggio impone – ha permesso di rendere utilizzabili milioni e milioni di euro di provenienza illecita. «Non c’è stato alcun controllo da parte di chi avrebbe dovuto eseguirlo. E’ necessario porre delle regole al gioco online altrimenti rischia di diventare un gigantesco e incontrollabile meccanismo di riciclaggio», scrivono i pm. E tale era diventato per gli uomini del clan di Reggio. LE REGOLE DEL SISTEMA Il meccanismo utilizzato era fondamentalmente semplice, ma geniale nella sua meticolosa applicazione. Alla base, c’era una consistente schermatura dell’effettiva natura delle imprese di scommesse e giochi on line, garantita da una serie di società formalmente collocate all’estero, come pure dallo spostamento oltre confine dei server necessari per connettersi al sistema e giocare. Uno stratagemma semplice, che le norme oggi in vigore non sono stato di grado di bloccare, ma che ha permesso ai clan di ripulire enormi quantità di denaro e insistenti profitti, poi reinvestiti per l’acquisizione di ulteriori imprese e licenze estere e nazionali per l’esercizio ancora più esteso e remunerativo delle attività. A garantirne l’operatività era un rosario di Centri di trasmissione dati (Ctd), dove contrariamente a quanto impone la norma era possibile fare giocate e puntate in contanti. Un vero e proprio “canale parallelo” per il procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, grazie al quale «tutte le giocate avvenivano direttamente in contanti, attraverso il conto aperto dalla società estera al punto di commercializzazione». Ogni centro era infatti collegato a “bookmaker” esteri (autorizzati a operare la raccolta a distanza in forza di apposite licenze rilasciate dalla competente Autorità maltese) da un apparente “contratto di prestazioni di servizi”, cui settimanalmente trasferiva tutte le puntate che i giocatori versavano in denaro direttamente in agenzia, al netto di perdite e vincite, come della provvigione che rimaneva alla stessa agenzia. Un meccanismo – ha continuato il procuratore – che faceva sì che «il giocatore passasse attraverso la piattaforma di gioco senza essere identificato», ma anche «all’evasione di cifre iperboliche per quanto riguarda le imposte dirette e a un gigantesco giro di riciclaggio». Dietro i presunti bookmaker tuttavia, c’era in realtà la direzione amministrativa dell’associazione, allocata all’estero, ma con tutte le caratteristiche proprie di una locale impresa mafiosa. IL CONTAGIO A diffondere a macchia d’olio le agenzie “infettate” dai clan sarebbe stata una rete piramidale e rigidamente strutturata che al suo vertice vedeva in primo luogo Mario Gennaro titolare effettivo di “circuiti di gioco”. Definito nei brogliacci dell’inchiesta da Francesco Ripepi (alias Ciccio Tizmor) come uno che da ragazzo era «costretto a rubare i motorini perché non aveva neppure i soldi per comprarsi le calze», Gennaro ha saputo far del suo vizio – che per il pentito Carlo Mesiano lo aveva addirittura «spesso fatto finire sotto usura», la chiave del successo. Uomo di Franco Giorgio Benestare, uno dei cinque generi del boss Giovanni Tegano , ha saputo fare carriera nel settore delle scommesse, diventando non solo country manager della società maltese Betuniq, ma addirittura proprietario occulto della società. Un ruolo messo a disposizione del clan, che in cambio gli ha affidato la gestione dell’intero sistema. IL CENTRO DI COMANDO Il piatto era ricco e come stabilito dalle regole forgiate al fuoco della seconda guerra di ‘ndrangheta, i Tegano – di cui Gennaro è per gli inquirenti espressione – non mangiavano da soli. Da Archi, i centri scommesse e circoli ricreativi gestiti dalle ndrine si erano estesi fino alla provincia di Reggio, a Melito Porto Salvo. Ma, per quanto cambiasse la zona, il sistema rimaneva identico ovunque. A condividere lo scettro del comando insieme a Gennaro – aggiunge il capocentro Dia, Gaetano Scillia – era Domenico La Grotteria, esperto del settore “giochi”, ma anche conoscitore di regole e opportunità offerti da mercati e sistemi finanziari esteri. LA PIRAMIDE DEL GAMBLING Agli ordini di Gennaro c’era un gruppo dirigente di fedelissimi incaricato di tenere le relazioni tra la struttura tecnico-informatica allocata all’estero e quella amministrativa, tutta saldamente allocata a Reggio Calabria, che ha gestito le affiliazioni delle sale giochi e la raccolta delle scommesse sul territorio. In “patria” a coordinare il lavoro delle agenzie, terminale ultimo del sistema, erano i cosiddetti master, incaricati di raccogliere settimanalmente quanto messo insieme dalle agenzie, ma anche di estendere a macchia d’olio il sistema. In fondo alla piramide invece, c’erano i titolari dei singoli centri, cui venivano aperti uno o più “conti di gioco” (conto “master” o conto di gioco intestato a soggetto compiacente) necessari per consentire on line l’effettuazione delle scommesse o la partecipazione a tornei di poker da parte di una terza persona (il “cliente finale”) che non ha un conto gioco proprio. In pratica, il cliente, senza registrarsi, effettua la puntata tramite un “conto di gioco” nella disponibilità dell’agenzia che gli rilascia una ricevuta. L’eventuale vincita viene, poi, pagata dal Punto di commercializzazione (Pdc) in contanti (anticipando, quindi, le relative somme per conto del “bookmaker”, che in ogni caso ha messo a disposizione dell’agenzia un “fido” per consentire le giocate).Un sistema che permetteva non solo di aggirare in toto la normativa che obbliga all’identificazione e vieta transazioni in contanti, ma anche di mascherare puntate che altro non erano che piccole o grandi operazioni di riciclaggio. RICICLAGGIO Un metodo alla base di quello che gli inquirenti non hanno esitato a definire un sistema scientifico in grado di sottrarre imposte per centinaia di milioni di euro all’Erario, ma soprattutto di immettere nell’economia legale una mole non ancora quantificabile di denaro frutto di proventi illeciti, ma formalmente immacolato. Denaro che per gli inquirenti solo potrebbe venire dal mondo grande del narcotraffico, di cui la ‘ndrangheta è da decenni monopolista nella gestione e distribuzione. Un’ipotesi frutto di un’intuizione investigativa – già emersa e trattata nell’ultima relazione annuale della Dna, dove si dettaglia la specializzazione funzionale dei mandamenti – su cui si sta ancora lavorando, ma che presto – lasciano intendere inquirenti e investigatori – potrebbe diventare molto più specifica e dettagliata.

Alessia Candito a.candito@corrierecal.it

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