LAMEZIA TERME Ci sono due indagini – delle Procure di Catanzaro e Paola – che potrebbero creare qualche imbarazzo nel settore della cartellonistica pubblicitaria. Quella in corso sul Tirreno cosentino ha già portato ad arresti (per un filone che riguarda l’intestazione fittizia di beni) e sequestri di impianti. Sul suo sfondo si affacciano relazioni pericolose tra società in odor di ‘ndrangheta e il più grosso operatore calabrese del settore. Dalle informative depositate nell’operazione “Robin Hood” della Dda del capoluogo, invece, spuntano foto che ritraggono il patron di Pubbliemme, Domenico Maduli, assieme ad alcuni dei principali indagati nell’inchiesta che ha svelato l’utilizzo allegro dei fondi da parte di Calabria Etica. Anche in questo caso, come per quello su cui investigano i pm paolani, l’indagine mette insieme mala amministrazione e ‘ndrangheta.
LE FOTO DEL ROS CON GLI UOMINI DEI CLAN Ci sono i verbali – pieni di omissis – dei pentiti, ma c’è anche parecchio materiale fotografico nei faldoni dell’inchiesta “Robin Hood” depositati a disposizione delle parti e, quindi, pubblici. Si tratta dell’operazione della Dda di Catanzaro che, il 2 febbraio scorso, ha portato all’arresto del consigliere regionale Nazzareno Salerno, già assessore al Lavoro all’epoca della giunta Scopelliti. E tra le foto, scattate dai militari del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri di Catanzaro, spunta anche il titolare di Pubbliemme, Maduli, che per quanto si sa non figura tra gli indagati, colto dagli inquirenti in compagnia di due dei personaggi centrali dell’inchiesta sulla presunta distrazione dei fondi pubblici del Credito sociale.
Gli uomini del Ros seguono i movimenti del 53enne Gianfranco Ferrante. Nato a Cetraro ma residente a Vibo, l’uomo è titolare di fatto (amministratore unico è la moglie) del “Cin Cin Bar” e, secondo gli inquirenti, sarebbe contiguo al clan Vallelunga di Serra San Bruno e ai Lo Bianco-Barba, cosca vibonese “federata” ai Mancuso.
Un soggetto, insomma, ritenuto «vicino» e «a disposizione» di diversi gruppi criminali vibonesi, finito nell’inchiesta della Dda perché avrebbe contribuito a mettere in atto una «intensa e ripetuta attività di pressione» nei confronti dell’allora dg del dipartimento regionale Lavoro, Bruno Calvetta, costretto ad affidare la gestione del progetto del Credito sociale a un dirigente (Vincenzo Caserta) ritenuto più vicino allo stesso Salerno. Una vera e propria estorsione, aggravata dal metodo mafioso, di cui sarebbe stato protagonista, oltre all’ex assessore regionale, anche il 56enne Vincenzo Spasari, dipendente di Equitalia di Nicotera finito in manette nella stessa inchiesta (il Riesame ha poi disposto i domiciliari sia per lui che per Ferrante) e ritenuto uomo vicino al boss Luigi Mancuso. Salerno, insomma, avrebbe indotto Calvetta ad assecondare i suoi voleri proprio grazie alla presenza di Ferrante e Spasari a un incontro “chiarificatore” avvenuto in un vivaio nel maggio del 2014.
Meno di un anno dopo, invece, i due personaggi chiave dell’inchiesta “Robin Hood” incontrano Maduli. La mattina del 30 marzo 2015 i Ros continuano a seguire i movimenti di Ferrante e individuano la sua auto a Vibo Marina. Poco dopo notano tre persone uscire dalla sede di Pubbliemme Group e poi fermarsi a discutere tra loro: si tratta proprio di Ferrante, Spasari e Maduli. Dal punto in cui gli uomini del Ros osservano l’incontro, sentono Ferrante dire a Maduli: «… risolvi il problema… lui se ne deve tornare dov’era prima…». Pochi minuti dopo i tre tornano indietro, Spasari e Ferrante risalgono in auto e vanno via mentre Maduli rientra nella sede della sua azienda.
Vincenzo Spasari, oltre ad essere il padre della sposa «che tanto clamore mediatico ha suscitato per l’atterraggio in elicottero presso la Piazza Castello di Nicotera», è cognato di Antonio Virgillo, «personaggio di rilievo – si legge nelle carte dell’inchiesta – legato alla cosca “Mancuso” e in particolare a Mancuso Luigi». Di lui i pm catanzaresi scrivono: «Che un dipendente di Equitalia sia in condizioni di imporre la volontà di un assessore regionale, nei confronti di un alto dirigente è possibile solo in forza del potere criminale che egli, in quel contesto, è chiamato a rappresentare (e che egli sia fonte di rappresentanza di quel potere lo conferma la “supervisione” del Ferrante, ivi intervenuto per assicurarsi che l’intimidazione fosse effettivamente posta in essere e che la stessa andasse a buon fine)».
Di Ferrante, invece, Carmelo Lo Bianco (“Sicarru”), esponente di spicco dell’omonima cosca, diceva: «L’ho cresciuto a m…a mia immagine e somiglianza, l’ho cresciuto come… Gianfranco gli ho imparato la vita, gliela ho imparata in tutto e per tutto…».
LE RELAZIONI PERICOLOSE SUL TIRRENO A Paola i rapporti sono più sfumati. Non personali, ma societari. E sfiorano la storia di Agostino Iacovo, un personaggio che appare spesso nelle cronache giudiziarie del Tirreno. L’ordinanza che ne ha sancito l’arresto il 3 marzo scorso (è stato successivamente liberato dal Tribunale del riesame) non risparmia dettagli sui suoi precedenti. È dal 2007 che il suo nome finisce in diversi procedimenti penali. Due – sempre imbastiti dalla Dda di Catanzaro per scardinare la cosca Muto di Cetraro – si sono conclusi con condanne in primo grado. Quattro anni di reclusione per il reato di usura alla fine del processo “Cartesio”, quattro anni e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo “Plinius”. Le sentenze non sono definitive, ma per la Procura di Paola ci sono elementi a sufficienza per tenere d’occhio le attività dell’imprenditore, colpito anche da un provvedimento di confisca del Tribunale di Cosenza.
Secondo l’accusa, Iacovo continua a gestire una piccola holding nella quale non dovrebbe più avere alcun ruolo. I pm di Paola entrano nel dettaglio di rapporti con presunti prestanome e società coinvolte. E arrivano fino alla Publidei, uno dei perni del sistema criminale ipotizzato dagli uffici giudiziari paolani. La società, che si occupa di affissioni pubblicitarie, inizia la sua storia nel 2005. Ed è seguendo accertamenti patrimoniali e bancari che la Guardia di finanza costruisce il castello accusatorio. Il primo proprietario, Enzo Buono, è tra gli indagati e compare spesso negli affari che coinvolgono Iacovo. La ditta, nel corso degli anni, ha cambiato più volte soci. L’attuale proprietaria è la moglie di Buono ma per la Procura di Paola il dominus continua a essere Iacovo.
E non da oggi. L’imprenditore condannato per usura ha percepito redditi da Publidei nel 2014 e nel 2015 ma la società «non risulta aver dichiarato né volumi d’affari né redditi con i quali avrebbe dovuto far fronte a tali investimenti». Per farlo, avrebbe dovuto far ricorso alle provviste dei soci, ma nessuno di essi, «sia della vecchia compagine societaria che della nuova ha dichiarato, negli anni, redditi tali da poter fronteggiare tali investimenti». Di fronte a prospettive che alla Procura appaiono “povere”, «sui conti correnti bancari risultano numerosissimi movimenti, anche di importi rilevanti proprio negli anni in cui la società non ha presentato le dichiarazioni fiscali previste».
Come se non bastasse, Iacovo «risulta delegato a operare su un conto corrente bancario della Publidei srl (…) dalla data d’accensione del 28 febbraio 2013, ciò nonostante lo stesso non risultasse avere alcun rapporto diretto con la Publidei srl, in quanto il rapporto di lavoro subordinato con la società è stato formalizzato solo nel 2014».
Publidei farebbe parte della holding “abusiva”: la sua sede è stata trasferita nello stesso complesso (“Le Muse”) dove ha sede il supermercato gestito dalla Mima srl, altra ditta finita nel mirino della Procura di Paola. Di più: negli ultimi an
ni, «ha avuto la disponibilità di svariate autovetture, e su alcune di queste autovetture sono stati fermati, per controlli su strada, sia Agostino Iacovo che soggetti vicini allo stesso o legati a lui da parentela nonostante questi ultimi non avessero, verosimilmente, alcun titolo all’utilizzo degli stessi».
Per il gip, Iacovo avrebbe «attribuito fittiziamente e di fatto gestito le società oggetto di contestazione facendo confluire nelle stesse risorse economiche e finanziarie al fine di eludere le misure di prevenzione». Sui conti della Publidei sono state effettuate, tra il 2013 e il 2014, operazioni per centinaia di migliaia di euro. Dietro questi movimenti bancari ci sarebbe l’ombra imbarazzante di Iacovo.
E l’imbarazzo potrebbe estendersi anche al più importante tra i partner della ditta. Si tratta di Publiemme, colosso calabrese della cartellonistica con interessi nell’editoria, con la quale Publidei, sul proprio sito web, segnala uno stretto legame: ne è la «concessionaria ufficiale».
Il fil rouge tra la società paolana e l’uomo condannato per usura e associazione mafiosa è un’ombra che potrebbe stendersi anche sulle partnership commerciali di Publidei. Che ha il vizio di inguaiare funzionari e amministratori pubblici. Dopo l’arresto di Iacovo, un’altra inchiesta ha coinvolto i Comuni di Acquappesa e Guardia Piemontese. Il guaio, in questo caso, è che «il servizio pubblicitario dei Comuni è gestito», dopo un affidamento diretto, «da società di servizi pubblicitari tutte di fatto riconducibili ai fratelli Agostino Iacovo, Dino Iacovo e Gigliola Iacovo, soggetti vicini alla criminalità organizzata cetrarese, nonché indagati, imputati e condannati in procedimenti penali».
Rispetto al sindaco di Acquappesa Giorgio Maritato, poi, i pm di Paola parlano di «frequentazione» e «comunanza di interessi economici» con il solito Iacovo. Il Tribunale ha confermato il sequestro di tutti gli impianti pubblicitari esistenti sui territori dei comuni. Ma i guai potrebbero non finire qui.
Pablo Petrasso
Sergio Pelaia
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