«Alla Calabria serve una rivoluzione etica»
Ad altre latitudini sarebbe l’uomo giusto nel posto giusto; capace, scrupoloso, per nulla attratto dall’esercizio del potere se non è servizio alla comunità; leale, strutturato, caparbio. Gli fa dife…

Ad altre latitudini sarebbe l’uomo giusto nel posto giusto; capace, scrupoloso, per nulla attratto dall’esercizio del potere se non è servizio alla comunità; leale, strutturato, caparbio. Gli fa difetto quel pizzico di cinismo che in politica non guasta mai. Si incaponisce, spesso, nel difendere l’indifendibile e fa così anche quando apri il discorso su Mario Oliverio e la sua presidenza.
Gli apparati lo vedono come il fumo negli occhi: è “colpa” sua se ancora qualche ostacolo intralcia il libero arbitrio targato Apicella o se il “Codice Pignanelli” trova argini alla propria disinvolta applicazione. Con il governatore il rapporto è di amore-odio: Oliverio lo vorrebbe più possibilista e meno intransigente.
Lorenzo Catizone (il fatto stesso che un Lorenzo Catizone abbia voce in capitolo la dice lunga sul circuito di gnomi, nani e ballerine che popolano il decimo piano della Cittadella), da mesi tiene in fresco lo champagne da stappare appena Oliverio licenzierà il prof.
Ignora, Catizone, che per chi vive di luce (e stipendio) propri è più difficile restare in questa compagine regionale che sbattere la porta e piantare baracca e burattini.
Ma lui, il prof, alla fine è vittima solo di se stesso e della sua dannata coerenza che riassume, lo vedrete più avanti, nelle parole dell’avvocato Ambrosoli. Non se l’è andata a cercare l’occasione di fare qualcosa per la sua terra, ma avendola non intende deviare dai suoi doveri e tantomeno disertare dai suoi obblighi. E quindi resta al suo posto. Anche quando l’incendio divampa, la questione morale diventa asfissiante e i detrattori serrano le fila.
La nostra chiacchierata con lui arriva anche a cavallo della bocciatura solenne rimediata dalla classe dirigente del Pd calabrese. Evidentemente Renzi comincia ad avere buoni informatori in giro e questo promette male per i figli d’arte che lasciano la segreteria nazionale, sull’orlo di una crisi di nervi, per cedere il posto ad Angela Marcianò. Adesso vai a spiegare che è solo una coincidenza, la svolta del Pd nazionale, rispetto ai tanti messaggi nella bottiglia lanciati in mare da Viscomi nelle ultime settimane.
Lo blocchiamo mentre, zaino in spalla, torna da Roma e gli chiediamo di spiegarci e di spiegarsi. Accetta ed ecco cosa ne viene fuori.
Professore, lei parla sempre più insistentemente di rivoluzione civile. Che cosa intende dire e perché parla di rivoluzione?
Premesso che non amo la parola rivoluzione né la retorica rivoluzionaria, che in genere ha sempre prodotto guasti inenarrabili, mi pare però evidente che ormai le inchieste giudiziarie ci dicono che siamo in presenza di situazioni che impongono a ciascuno di noi di scegliere chiaramente da che parte stare e di agire di conseguenza. Non è più tempo di compromessi e di cautele. C’è certo un problema di criminalità organizzata, ma più in radice esiste una vera e propria questione morale che chiama in causa chi opera in politica, nelle amministrazioni, nelle imprese e anche nelle professioni. L’etica, pubblica o privata che sia, non si predica, si pratica. E si pratica anche se costa. E questo vale per tutti; nessuno può ritenersi chiamato fuori.
Rispettare le leggi però dovrebbe essere ovvio…
Certo che sì. Ma l’etica ha a che fare con il valore della responsabilità, che a sua volta ha a che fare con il senso e il significato che ognuno di noi dà alla propria vita, sia nella dimensione individuale e familiare che in quella collettiva. È questo senso che però sembra oggi franare rovinosamente sotto l’impatto di modelli culturali diffusi che esaltano i desideri rispetto agli impegni, l’io rispetto al noi, l’arricchimento veloce rispetto alla costruzione faticosa della ricchezza, la competizione a chi arriva prima e non a chi fa meglio. Il rischio reale è l’assuefazione, il ritenere che tutto sia normale, tutto alla fine tollerabile, l’abbattimento, per così dire, della soglia di indignazione.
A parole tutti però affermano l’esigenza di un’etica, ma poi ognuno la interpreta a modo suo.
Lascerei ai filosofi le questioni su cosa sia l’etica: personalmente credo che, qualunque sia la nostra prospettiva culturale, non abbiamo bisogno di mille leggi e bastano invece i dieci comandamenti per vivere una vita buona. Inizierei invece una discussione aperta su ciò che intendiamo con il termine pubblico. Poiché conosco il proverbio calabrese che suona più o meno così “chi non ruba al governo va all’inferno” temo sempre che la cosa pubblica possa essere percepita non già come la cosa di tutti da rispettare e tutelare ma come una cosa di nessuno da depredare e vandalizzare. Basta guardarsi intorno per avere questa percezione. Se così è allora su tutte le istituzioni e le agenzie educative che operano in questa regione grava il dovere di insegnare con l’esempio il senso stesso del pubblico e dei doveri che esso comporta. Meno retorica e più attenzione al fatto che siamo sempre responsabili, almeno sul piano morale e politico, delle conseguenze dirette e indirette delle nostre azioni.
Ma che significa questo per la politica?
Vuol dire radicare il senso stesso dell’agire politico in una dimensione ideale e, per chi crede, anche spirituale, vuol dire assaporare il gusto della militanza gratuita che non è alla ricerca continua di incarichi e prebende, vuol dire vivere un comune sogno di riassetto dei rapporti sociali, vuol dire in poche parole smetterla di pensare che la politica sia esercizio e gestione di puro potere. Ecco perché aveva ragione don Sturzo a dire che un programma politico si deve vivere, ma non si può inventare. E chi non lo vive, quel programma, dovrebbe starsene da un’altra parte. Si dirà che occorre realismo politico, altrimenti si perdono le elezioni. Certo qualcuno può pensare o augurarsi di vincere facile. Ma se si guarda la storia ci si accorge che la riduzione della politica a pura gestione alla fine non porta da nessuna parte, anzi alla fine allontana i cittadini che ora sono veramente stanchi. Semmai mi pare che ancora non ci sia piena consapevolezza del fatto che le più recenti inchieste sulla ’ndrangheta dimostrano l’esistenza di cambiamenti profondi nel rapporto tra politica e criminalità, sui quali una comunità politica non può non ragionare.
Ma la rivoluzione con chi la vuole fare?
Quando parlo di rivoluzione civile penso ad un eroe borghese come Giorgio Ambrosoli, e alla struggente ultima lettera a sua moglie, che invitava a far crescere i figli “nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto… Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa”. Ecco riscoprire i doveri che abbiamo verso noi stessi e gli altri è sempre un gesto rivoluzionario, che cambia il mondo alla radice. E lo cambia se ognuno di noi si alza le maniche della camicia e invece di tenersi le mani belle e pulite in tasca se le sporca per ripulire questa regione. A ognuno di noi è posta una domanda: tu da che parte stai?
Paolo Pollichieni
direttore@corrierecal.it