REGGIO CALABRIA Dalla latitanza di Dell’Utri e Matacena agli affari delle aziende italiane in Medio Oriente, dalle speculazioni immobiliari a gigantesche operazioni di riciclaggio. C’è uno Stato parallelo in Italia, ha gestito e gestisce dossier delicati, investimenti esteri, asset strategici, nomine e carriere. Pochissimi – e selezionati – ne conoscono abitanti e confini, ma le sue decisioni determinano (e da tempo) la politica, la diplomazia e probabilmente parte della storia italiana. Per la Dda, quello Stato parallelo si riconosce e si identifica in una «superassociazione al cui interno si colloca anche l’organizzazione di tipo mafioso, di certo al pari di altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato».
SISTEMA CRIMINALE INTEGRATO È un sistema «pancriminale» in grado di «garantire interlocuzioni costanti con apparati istituzionali e professionali» e che si basa su «un’ampia rete relazionale e di interessi che caratterizza il mondo imprenditoriale, economico nazionale e internazionale, in collegamento sinallagmatico con le più evolute manifestazioni operative della ‘ndrangheta». Anni fa, qualche pentito di ‘ndrangheta che qualcosa aveva intuito, lo chiamava la “banca dei favori”. E per la prima volta ne sono stati intercettati e riscontrati confini, uomini, operatività. Storica operatività.
INFORMATIVA “PERICOLOSA” A svelare il nuovo filone di indagine su cui si stanno concentrando gli sforzi investigativi del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e degli uomini della Dia che coordina, è l’informativa di recente depositata agli atti del processo Scajola. Ormai da settimane è in mano ai legali che difendono l’ex ministro dell’Interno, la moglie di Matacena, Chiara Rizzo, gli storici collaboratori dei coniugi Martino Politi e Mariagrazia Fiordelisi dall’accusa di aver aiutato l’ex parlamentare azzurro, da tempo latitante a Dubai a sottrarsi alla condanna definitiva per mafia e ad occultare il suo immenso patrimonio. E più di uno è preoccupato. Perché alla luce del quadro che ne emerge, più di una posizione si potrebbe complicare.
ORBITE RELAZIONALI E PROGETTI CRIMINALI Secondo la Dda, la latitanza di Matacena non è stato un episodio isolato. E Scajola non avrebbe agito da solo, o con il semplice supporto di Vincenzo Speziali, che per questa accusa ha già patteggiato un anno di pena. Certo, l’omonimo nipote del defunto senatore del Pdl e parente acquisito dell’ex presidente del Libano Amin Gemayel, potrebbe contare su un universo variegato di contatti in cui si muovono l’ex piduista Emo Danesi, l’ex presidente del Libano Amin Gemayel e il presidente di Gazprom Bank Robert Sursock, Stefano Ricucci, Sergio Billé, il patron di AdnKronos Pippo Marra, l’ex consigliere Luciano Berarducci (fino al 2014 vicepresidente dell’Authority per la Vigilanza sui Contratti Pubblici), Marcello Trento, «soggetto che si occupa di progettazioni nel campo dell’energia alternativa» con misteriosi agganci negli ambienti dei servizi e i fratelli Giuseppe, Massimo e Raffaele Pizza. E tutti sembrano muoversi su orbite compatibili.
SALVARE MATACENA, UN PIANO DI SISTEMA Ma per la Dda la fuga del politico armatore sarebbe stata curata da un intero sistema, che dai salotti romani alle residenze di Beirut si è mosso per gestire grandi affari e manovre politiche internazionali, grazie a un capitale di contatti e relazioni che si sono consolidate nel corso di decenni e oggi tengono insieme manager di Stato, ‘ndranghetisti di alto rango, ambasciatori, massoni, dirigenti ed ex dirigenti dei servizi, furbetti del mattone e dell’appalto, politici della prima Repubblica, riciclati nella seconda e già tutti ben ricollocati direttamente o indirettamente nella Terza.
LA MASSONERIA DELLA MASSONERIA Uomini provenienti da mondi diversi, tenuti insieme da un comune vincolo massonico, sparpagliato fra obbedienze di varia natura, ordini cavallereschi, logge segrete, inclusa quella del conte Giacomo Maria Ugolini. «Una sorta di continuazione della Propaganda 2 in quanto connotata dai medesimi obiettivi di potere e soprattutto dalla struttura “coperta” e “segreta”» dice il pentito Cosimo Virgiglio, massone di alto rango e un tempo uomo di riferimento del clan Molè, che l’ha frequentata. Ci ha incontrato generali, «quella sera c’era Lisi della Guardia di Finanza» ricorda Virgiglio a proposito di una cerimonia di iniziazione, ma c’erano anche politici. «Uno – sottolinea – era Claudio Scajola e l’altro era il comandante reggente Meninni, che sarebbe il primo ministro sanmarinese». Scajola – specifica il pentito – all’epoca non solo era il ministro delle Infrastrutture, ma aveva anche la delega ai servizi segreti.
CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE Alla base della superassociazione c’è dunque un potere consolidato nel corso del tempo, blindato da anni di segreto e che negli anni si è perpetuato, magari tramandando di padre in figlio o altro parente l’appartenenza alla cerchia. Una sorta di massoneria della massoneria, che ha messo insieme uomini d’affari, grande finanza italiana, straniera e vaticana, mafie, politica e intelligence. Un blocco di potere che negli anni ha permesso alla superassociazione di perpetuarsi. «Quando si andò a disfare il vecchio sistema cosiddetto della vecchia Repubblica, e ognuno si cercò di muovere e di aggregarsi – spiega Cosimo Virgiglio, massone di alto rango e uomo di fiducia del clan Molè, oggi pentito – il vecchio potere cambiò l’etichetta, cambiò le vesti ma alla fine era sempre lo stesso concetto».
ALL’OMBRA DEI BLOCCHI Traduzione, la balena bianca forse non è mai affondata del tutto. O meglio, non è affondato il sistema di potere che attorno alla Dc si è consolidato, all’ombra di quello schieramento atlantico durante la guerra fredda che all’Italia è costato strutture come Gladio e altre innumerevoli operazioni Stay behind. Non a caso, molti dei personaggi che oggi emergono nell’ambito operativo della superassociazione iniziano a consolidare il proprio potere e il proprio ruolo nell’Italia degli anni Settanta, schiacciata dai blocchi contrapposti. Personaggi come Giuseppe “Pino” Pizza, fratello di Lino, oscuro personaggio arrestato qualche anno fa per appalti, concessioni e commesse truccate o procurate a richiesta e su compenso, e di Massimo, «soggetto poliedrico coinvolto in diverse e complesse indagini che – sottolinea la Dia – lo hanno sempre accostato ad ambienti massonici o dei servizi segreti deviati».
IL PADRONE DELLA DC Originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte, ma tirato su nel salernitano, Pino Pizza è cresciuto fra i ranghi della Dc, del cui simbolo storico di recente – dopo lunga e tumultuosa battaglia legale – è diventato unico legale proprietario. Fattosi largo nel partito negli anni della Prima Repubblica, Pizza anche nella Seconda ha trovato il modo di entrare nelle stanze di governo. È stato sottosegretario all’Istruzione per Berlusconi, per poi passare all’ufficio stampa del ministro dell’Interno quando il Viminale era affidato ad Angelino Alfano. Dal 2011 in poi ha presieduto la Commissione interministeriale per la internazionalizzazione dell’università e quella per la ricerca applicata ai beni culturali, dove – ha messo lui stesso a verbale – «mi interessavo del funzionamento della costellazione “Cosmos Skymet”, che aveva valenza duale cioè politica – militare». È in quell’ambito – racconta – che ha conosciuto soggetti come il direttore dell’Aise, Alberto Manenti. Ma non è l’unico uomo dell’intelligence con cui Pizza sia entrato in contatto.
LE VERITÀ DI FRANCO PAZIENZA Il primo di cui si abbia contezza si chiama Francesco Pazienza, ex agente del Sismi condannato definitivamente a 13 anni di carcere per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna e il crac dell’Ambrosiano. Uomo delle trame italiane, reclutato fra i ranghi della massoneria dal generale Santovito, il suo nome è saltato in relazione a Calvi, alle Br, alla tragedia di Ustica e ai crack bancari, ai sequestri di ‘ndrangheta e persino in relazione allo scandalo che ha travolto Jimmy Carter e ha spianato la strada della presidenza degli Stati Uniti a Ronald Reagan. Una spia dai mille volti, che con Giuseppe Pizza era in contatto fin dall’inizio degli anni Ottanta.
A CENA DA ARANITI, A PRANZO DA DON STILO «Era l’Ottanta o 81 perché io ero già, pure ancora vivendo a Parigi ero già collaboratore del Sismi – racconta Pazienza in un interrogatorio recente – e mi invitò in Calabria. Siccome non ero mai stato in Calabria, da Roma andammo in Calabria e vidi che lui era amico dei De Stefano all’epoca e soprattutto di Domenico detto Mimmo Araniti». Già all’epoca, due dei più importanti casati di ‘ndrangheta di tutta la provincia reggina, fra i pochissimi ad essere ammessi alla Santa, la nuova struttura – secondo alcuni pentiti “battezzata” da Franco Freda nel corso della sua latitanza – che per la prima volta ha formalizzato i contatti fra massoneria e massimi vertici dei clan calabresi.
LUTTO INTERCONTINENTALE «Domenico Araniti – ricorda Pazienza – l’ho conosciuto perché fecero una grande cena quando sono stato giù. Sono stato 36 ore e fecero una grande cena in onore di Pino Pizza». Per pranzo invece i due si sono spostati sulla fascia jonica, dove sono stati graditi ospiti di don Stilo, grande collettore di finanziamenti pubblici e padre padrone di una scuola “diplomificio”, che secondo i pentiti avrebbe accolto più di un latitante. «Dovevo assolutamente tornare a Roma perché la mattina dopo dovevo prendere l’aereo delle 8,30, 9,00 per andare a Parigi. E l’aereo mi sembra che fosse l’ultimo aereo, ce ne era uno solo che faceva Reggio Calabria- Roma. Mi pare che fosse alle 5 del pomeriggio e alle 3 e qualche cosa eravamo ancora a tavola da Don Stilo, a casa sua. Lui ha preso il telefono, l’aereo mi ha aspettato, l’aereo dell’Alitalia mi ha aspettato … io sono arrivato con due ore di ritardo e … c’era l’aereo fermo che mi aspettava … come un jet privato». Qualche mese dopo, i due insieme sono volati a New York, dove racconta Pazienza, il futuro sottosegretario lo avrebbe trascinato al funerale del potentissiomo boss della mafia statunitense Tommasino Gambino, il padre di Joe Gambino. «Lui mi disse devo andare a questo funerale e compagnia cantante. Allora io comprai un cappello grosso così, gli occhiali neri perché io sapevo che saremmo stati fotografati tutti, dall’Fbi».
DIPLOMAZIA DA SALOTTO Oltre trent’anni dopo, che si sappia, fra i due non risultano più contatti. Ma la capacità di tessere relazioni con uomini in odor di mafia, politici e pezzi di servizi, Pizza non l’ha persa. Anzi nel suo entourage sono entrati anche ambasciatori, faccendieri, consulenti di grandi aziende di Stato e non, capi di Stato. Tra il 2013 e il 2014, nell’elegante salotto di via nazionale Pizza ha organizzato cene e incontri a cui ambasciatori, italiani e vaticani, immobiliaristi, faccendieri, consulenti di Selex, Finmeccanica, Eni e altre grandi partecipate di Stato, capi di Stato stranieri. Appuntamenti mondani che forse sono state pretesto e occasione per discutere di affari delicati come la latitanza di Dell’Utri, che ha personalmente partecipato a due di questi appuntamenti, o i grandi affari delle grandi partecipate di Stato in Libano.
LA CARAMBOLA INTERNAZIONALE DI AMIN GEMAYEL Del resto, in quella stagione ospiti fissi delle cene a casa Pizza erano l’ex presidente del Libano Amin Gemayel, sempre accompagnato da Speziali, e il suo potente e ricchissimo cugino, Robert K. Sursock, capo libanese di Gazprombank, terza banca di Russia e braccio finanziario dell’omonimo colosso russo dell’energia. Sono stati loro – emerge dalle indagini della Dda – fra i principali protagonisti di una delicata partita politica e finanziaria internazionale che – quanto meno per un periodo – si è giocata fra gli appartamenti dai soffitti stuccati del centro di Roma. «Ho sicurezza che Gemayel e Dell’Utri si sono appartati per parlare» hanno confermato sotto interrogatorio tanto Danesi come Pizza.
ENDORSEMENT INTERNAZIONALI Caduto in bassa fortuna in patria, dove già da tempo aveva perso il favore della maggioranza dei cristiani strettisi attorno al generale Michel Aoun, Gemayel in quel periodo di frequenti viaggi in Italia era alla ricerca di appoggi internazionali. Vicepresidente dell’Internazionale democristiana, sperava – ricostruiscono gli investigatori – di poter raccogliere all’estero i contatti e gli appoggi che gli avrebbero permesso di giocare meglio la partita in patria.
LA DOTE DEL PRESIDENTE (E DEL SUO RICCO CUGINO) Nel corso del suo viaggio in Italia, Gemayel porta in dote, non solo la rete di contatti e potere che ancora possiede in Libano e avrebbe consentito a Matacena – afferma una lettera a sua firma rinvenuta dagli investigatori nell’ufficio di Scajola – piena operatività e «un documento d’identificazione con dati anagrafici affinché egli possa rimanere nel nostro paese e condurre una vita normale, naturalmente sotto la nostra responsabilità». Del tesoro che Gemayel sembra pronto a offrire in quel periodo, fanno parte anche le reti imprenditoriali e finanziarie che passano dal potentissimo cugino, il banchiere Sarsock, uomo ponte fra la grande finanza di Stato russa e interessi (anche finanziari) molto mediterranei.
IL TESORO LIBANESE In più, in Libano in quel periodo si parla di opere faraoniche fra cui un’autostrada che avrebbe dovuto collegare Beirut a Damasco, una ferrovia nella valle della Bekaa e una diga. Progetti che hanno fatto gola a più di una grande azienda italiana, fra cui Selex Finmeccanica, Condotte e 3T Progetti, che probabilmente non a caso in quella stagione hanno scelto il nipotino acquisito di Gemayel come molto ben retribuito consulente. Ma in ballo c’è soprattutto lo sfruttamento di due giacimenti petroliferi di cui Gemayel e il suo potente cugino sarebbero andati discutere direttamente al quartier generale dell’Eni a Roma.
I RAPPORTI CON L’ENI Per ordine del fratello Pino, sono accompagnati da Lino Pizza. Solo per mostrare loro la strada, dice sotto interrogatorio l’ex sottosegretario voluto da Berlusconi. Tuttavia non può fare a meno di ammettere «So che Gemayel veniva spesso in Italia per il Vaticano e per l’Eni. Ribadisco, che io sappia: Non sono in grado di dire esattamente a quando risalgono i rapporti di Gemayel con i vertici dell’Eni. Ribadisco che Gemayel si sente molto vicino all’Italia e che cercava il rapporto con l’Eni perché non aveva buoni rapporti con l’attuale amministrazione politica francese». Una carambola internazionale sui cui esiti si indaga ancora.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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