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«Matteo contro Matteo»

di Antonino Mazza Laboccetta*

Pubblicato il: 04/09/2019 – 11:51
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«Matteo contro Matteo»
La crisi d’agosto Era ormai un problema di timing. Dopo il successo della Lega alle elezioni europee, il problema di Matteo Salvini non era “se”, ma “quando” staccare la spina al governo Conte. E, al riguardo, le opinioni all’interno della Lega erano contrastanti. Vi era chi consigliava di non indugiare, alla luce dell’innegabile cambiamento nel rapporto di forze; vi era chi, al contrario, caldeggiava maggiore cautela, non foss’altro che per fugare l’impressione di irresponsabilità istituzionale. Si trattava di capitalizzare il bottino elettorale, ma occorreva pure un buon movente, il “casus belli”. Occorreva evidenziare le contraddizioni dell’azione di governo, e gli ostacoli che ne rendevano difficile la gestione impedendo lo sviluppo e il (tanto sbandierato) “cambiamento” del Paese. Ne hanno dato occasione le mozioni sulla Tav, su cui il governo si è letteralmente spaccato in due. Da una parte, la Lega, favorevole alla Torino-Lione insieme al Pd, a Fi ed a Fdi (Conte sulla stessa linea); dall’altra, il Movimento 5Stelle, barricato nella sua posizione “No Tav”. Una spaccatura plasticamente messa in rilievo dalla stessa disposizione dei ministri sul banco di governo al momento del voto: i leghisti da un lato e i pentastellati dall’altro. Separati in casa. Buon gioco ha avuto Salvini a sparare ad alzo zero contro i colleghi di maggioranza, colpevoli, a suo dire, di bloccare lo sviluppo del Paese con i tanti – troppi – “no”. E, poi, a favore della cautela nella gestione del timing spingeva anche l’esigenza di mettere in cascina, prima dello showdown, alcuni provvedimenti, come il decreto “Sicurezza bis”, che Salvini avrebbe potuto spendere in campagna elettorale per attizzare ancora di più il consenso conquistato nelle elezioni europee. Forte di questi risultati (la spaccatura nella maggioranza e i provvedimenti tanto inseguiti dalla Lega), Salvini ha ritenuto che fosse giunto il momento di staccare la spina al governo. Foss’anche ad agosto. Certamente – diciamo così – inusuale una crisi d’agosto, ma per Salvini era l’ultimo treno prima di impantanarsi nella legge di bilancio con il concreto rischio di vedersi imporre scelte impopolari e di non poter fare la tanto sbandierata riduzione delle tasse (rammento solo che il premier Conte, nel suo giro discreto ma efficace delle cancellerie europee, era intanto riuscito ad accreditare un percorso economico-finanziario che, almeno ad oggi, ha scongiurato la procedura di infrazione per deficit eccessivo). Era l’ultimo treno prima di implodere nelle contraddizioni della politica economica dei due partiti di governo (evitiamo, per carità di patria, di soffermarci sulle innumerevoli diversità di “vedute” tra leghisti e pentastellati: flat tax e reddito di cittadinanza, per limitarci ad un esempio. Diversità che hanno precluso la strada ad un vero “programma di governo”, facendo “ripiegare” – e tuttavia con grandi strombazzamenti da parte dei due partner, o meglio, controparti – su un “contratto di governo”, formula inedita nella nostra storia costituzionale). Era l’ultimo treno prima che Salvini si vedesse costretto a dire un sì netto e definitivo all’autonomia differenziata con il rischio di perdere consensi al sud (non bisogna dimenticare la strigliata che Zaia e Fontana hanno fatto al leader leghista sul Corriere, contrariati dal fatto che, con un vice-premier e ministro dell’interno nel governo, l’autonomia differenziata abbia stentato, e di fatto ad oggi non si sia realizzata). Per salvare e mantenere il bottino elettorale, Salvini non aveva scelta. E così ha dovuto giocare l’azzardo della carta della crisi di governo. Dico “azzardo” perché non credo che Salvini, a dispetto delle tante sottolineature in rosso del professor Conte, non si sia reso conto che la nostra è una democrazia parlamentare, in cui i governi si formano (con i numeri) nel Parlamento (la stessa Lega, alle ultime elezioni politiche, si è candidata con Forza Italia e con Fratelli d’Italia per poi fare il governo con i 5Stelle). Credo piuttosto che Salvini non immaginasse il tiro mancino dell’altro Matteo che, forte di una fedele pattuglia parlamentare, ha gettato sul tavolo di gioco l’impensata apertura all’alleanza di governo tra il Pd e il Movimento 5Stelle. Non immaginava Salvini che l’altro Matteo, Matteo Renzi, avrebbe abbandonato in un batter di ciglia – e direi, con fare felino – la linea del “mai con i 5Stelle”, già dettata nel salotto di Fazio e sempre pervicacemente rivendicata, che a suo tempo aveva sbarrato la strada alla nascita del governo Pd-5Stelle, portando così al governo Conte. Quando la carta di Renzi è stata calata sul tavolo della crisi di governo, scompigliando i giochi al punto da mettere in difficoltà lo stesso Pd di Zingaretti, Salvini, non poco ammaccato sul piano dell’immagine, è stato addirittura costretto ad arretrare, proponendo ai 5Stelle una ripartenza. Non immaginava Salvini che i 5Stelle avrebbero mai potuto digerire un’alleanza con il tanto avversato e vituperato Pd, il “partito di Bibbiano”. Credo pure che Salvini abbia sottovalutato il fatto che intorno all’elezione del presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si sia saldata una maggioranza che, con dentro la pattuglia dei 5Stelle, è riuscita ad arginare la pressione dei sovranisti. Cattivo presagio per Salvini, la mossa dei 5Stelle. E così la debolezza dei 5Stelle e quella del Pd, messe insieme, fanno la “forza di governo” che si accinge – almeno, così pare – a governare sotto la guida di Giuseppe Conte. Le elezioni ad ottobre avrebbero fatto male ai 5Stelle, e al Pd di Zingaretti sarebbero servite soprattutto per il ricambio della sua pattuglia parlamentare, ad oggi ancora in mano a Renzi. La Lega avrebbe, invece, incassato un grosso successo, allargato dalla probabilissima alleanza con Fratelli d’Italia e con Forza Italia. Due domande Riusciranno a governare il Pd e i 5Stelle? Cosa ne sarà di Salvini? Difficile rispondere alla prima domanda. Certo è che per riuscire a svuotare il malcontento su cui si regge il consenso della Lega, occorre un governo politico di legislatura che si muova nell’alveo delle istituzioni europee, cercando però di strappare, nei limiti delle compatibilità finanziarie, margini maggiori di movimento (per dir così, si tratterebbe di passare all’incasso l’appoggio che l’Italia ha dato per l’elezione del Presidente della Commissione europea. In un momento di stagnazione, qual è quello che attraversa oggi l’Italia, sarebbe una boccata d’ossigeno utile a mettere in moto un programma di investimenti pubblici e infrastrutturali, specie al Sud, e a stimolare la domanda). Centrale, nel programma di governo, dovrebbe essere la politica sull’immigrazione, che, abbandonando la postura muscolare della Lega, negozi con realismo il Trattato di Dublino nella direzione del coinvolgimento e della solidarietà dei Paesi europei. Altro obiettivo: governare in modo ordinato l’autonomia differenziata attraverso la definizione normativa di procedure “omogenee” che, in attuazione del dettato costituzionale, frenino le spinte disgregatrici e l’assalto alle risorse pubbliche da parte delle regioni più ricche. Ancora: prendere di petto le disuguaglianze sociali attraverso misure intese a dare lavoro e a stimolare la domanda. Sono alcune delle politiche (moderate) che potrebbero svuotare le ragioni del rancore sociale delle masse e del malcontento delle classi produttive e professionali su cui prospera il consenso della Lega. E, poi, occorre costruire, alla luce delle trasformazioni radicali che hanno investito le nostre società, un orizzonte di senso, un progetto politico-culturale. E, qui, molto più attrezzato, ma ancora deficitario e inconcludente, è il Pd, benché potenzialmente capace, nel medio periodo, di assorbire per questa via il “movimentismo” pentastellato, troppo magmatico. Restano alcune ipoteche: i 5Stelle, in caduta di consensi, potrebbero alzare la soglia, e mettere in discussione la stabilità del governo (o addirittura la sua nascita). E, poi, c’è Renzi, che, con la sua pattuglia di parlamentari, come fa nascere il governo, così può farlo morire. Più facile rispondere alla seconda domanda. Salvini farà opposizione dura. Liberandosi della grisaglia ministeriale, starà sempre sul fronte. Sempre in agguato su ogni politica del governo. Per raggiungere le masse “semplificherà” il discorso politico più di quanto non abbia già fatto pur stando seduto intorno al tavolo del governo. La “semplificazione” del discorso politico è la chiave di volta del populismo. È quella che fa presa sui tavoli dei bar. Ma sui tavoli del governo i problemi, come non è noto ai più, sono “complessi”, e in tutta la loro complessità vanno affrontati. Non credo sia finita la stagione di Salvini.

*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

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