di Alessia Truzzolillo
CATANZARO Risulta avere un curriculum di tutto rispetto Giovanni Paladino, 68 anni, considerato «in rapporti di familiarità con i vertici del clan Cerra-Torcasio-Gualtieri fin dagli anni ’90». Nonostante questo, nei confronti dell’ex medico risulta carente «la prova di una stabile messa a disposizione del professionista» nei confronti della cosca nel ristretto periodo temporale (febbraio 2015/31 maggio 2015) preso in esame dall’accusa e durante il quale Giovanni Paladino avrebbe chiesto l’appoggio elettorale della consorteria per il figlio Giuseppe Paladino (ex consigliere comunale e vicepresidente del consiglio a Lamezia Terme) e, suo tramite, per il candidato a sindaco Pasqualino Ruberto.
Nel corso del processo, con rito abbreviato, “Crisalide”, istruito dalla Dda di Catanzaro, su indagini del Nucleo investigativo dei Carabinieri del capoluogo, il medico lametino, e il candidato a sindaco (poi consigliere d’opposizione) Pasqualino Ruberto sono stati assolti, a maggio 2019, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Giuseppe Paladino è stato, invece, condannato a 6 anni, sempre per concorso esterno, nel processo con rito ordinario.
Dopo oltre un anno dal pronunciamento della sentenza il gup Pietro Carè, ha depositato le motivazioni della propria decisione.
Valutazioni conclusive che, su Paladino, vengono sintetizzate in 21 righe appena. In premessa il gup sostiene che: «Il vasto materiale intercettivo esaminato e, limitatamente alla posizione di Giovanni Paladino, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, consentono di affermare che, in occasione delle elezioni amministrative comunali del 2015, Giuseppe Paladino e Pasqualino Ruberto abbiano cercato (ed ottenuto) l’appoggio elettorale della cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri. Il dato appare inconfutabile per ciò che concerne il giovane consigliere Giuseppe Paladino, nell’interesse del quale il padre Giovanni si preoccupa di “rinnovare” il patto elettorale stabilmente intrattenuto negli anni con gli esponenti della cosca».
PALADINO STORY Da quello che risulta dalle indagini, riportate ampiamente all’interno della sentenza (inframmezzate dai commenti del gup), la Paladino Giovanni story avrebbe inizio negli anni ’90, nel periodo «di diretta partecipazione dell’imputato alla politica locale, allorché il Consiglio comunale di cui faceva parte veniva sciolto con decreto del Presidente della Repubblica del 30.9.1991 per accertate infiltrazioni mafiose». Nel decreto di scioglimento si affermava «che di quel civico consesso facevano parte alcuni consiglieri in ordine ai quali erano emersi collegamenti diretti o indiretti con esponenti della criminalità organizzata». Tra questi appare il nome di Giovanni Paladino nei confronti del quale i carabinieri sottolineano «che, in diverse occasioni, già negli anni ’90, veniva notato accompagnarsi con soggetti pregiudicati e socialmente pericolosi, affiliati all’allora cosca unitaria “Cerra-Torcasio-Giampà” ed in particolare» con Vincenzo Torcasio, detto “u niguru” e Francesco Torcasio, considerati «due soggetti di elevato spessore delinquenziale, ritenuti organici all’allora cosca unitaria denominata “Cerra-Torcasio-Giampà”. In particolare il primo, per la sua abilità nel maneggiare e/o modificare armi, veniva ritenuto l’armiere del clan e agli inizi degli anni duemila, a seguito della scissione avvenuta all’interno della suddetta organizzazione criminale, rimaneva fedele alla cosca Giampà, allontanandosi dai “Cerra-Torcasio”». Vincenzo Torcasio, è stato arrestato nell’ambito dell’operazione antimafia “Perseo”, mentre Francesco Torcasio il 3 maggio 2003 in seguito ad un agguato di chiara matrice mafiosa, è stato ritrovato, insieme al fratello Antonio, carbonizzato in località Carratello del Comune di Pianopoli all’interno dell’auto di proprietà di quest’ultimo.
I COLLABORATORI Ad agosto 2015 il collaboratore di giustizia Umberto Egidio Muraca sostiene che Giovanni Paladino, già durante le elezioni del 2010, gli avrebbe chiesto, ben consapevole della caratura criminale di Muraca, voti e sostegno elettorale per il figlio Giuseppe. In cambio avrebbe promesso «ai capi cosca Pasquale Torcasio classe 1969 e a Vincenzo Torcasio classe 1980 che si sarebbe interessato per far assumere, alle dipendenze dell’aeroporto di Lamezia Terme, i familiari di questi ultimi che non risultavano gravati da pregiudizi penali».
Secondo il gup, a delineare «un pessimo profilo morale» di Giovanni Paladino è il collaboratore Rosario Cappello, nel corso dell’interrogatorio di marzo 2016, «indicandolo come soggetto con poche remore al coinvolgimento in dinamiche criminali ed attestandone la familiarità con i vertici del clan sin dagli anni ’90».
PROIETTILI PER LA COSCA Rosario Cappello ribadisce la vicinanza di Paladino con Vincenzo Torcasio (proprio a casa di “u niguru” Cappello dice di avere incontrato Paladino senior) e aggiunge che «essendo il predetto professionista autorizzato a detenere armi comuni da sparo (pistole), in talune occasioni, tramite il predetto Torcasio, per rimpinguare le armi nella disponibilità della cosca, li riforniva di proiettili («in un’occasione specifica ricordo che il Paladino portò due confezioni di cartucce calibro 7,65, rispettivamente una per me ed una per lo stesso Vincenzo Torcasio, detto “u nigru”» ) che venivano utilizzati dai vari consociati per commettere atti delittuosi tra cui danneggiamenti a scopo estorsivo ed omicidi». Anche Cappello afferma che nel corso del 2010 Giovanni Paladino ha chiesto voti per il figlio Giuseppe offrendo in cambio favori quali l’aggiudicazione di appalti edili e il rilascio di certificati medici. Lo stesso Vincenzo Torcasio avrebbe confidato a Cappello che Paladino si sarebbe messo a disposizione dei Cerra-Torcasio-Gualtieri «per curare, riservatamente, gli affiliati alla citata compagine che rimanevano feriti in qualche agguato in maniera non grave, cosicché da evitare il transito dal Pronto Soccorso». A collegare Giovanni Paladino alla cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri ci sono anche le dichiarazioni dei collaboratori Giuseppe Giampà, Saverio Cappello, Gennaro Pulice e Pasquale Giampà.
IL FUNERALE Lo stesso gup rileva come di «eccezionale valenza probatoria» quanto accaduto in occasione del funerale di Vincenzo Torcasio, classe 1931, marito di Teresina Cerra. Il reggente Antonio Miceli (condannato in abbreviato a 20 anni di reclusione) lamentava il fatto di non avere ricevuto alcun segno di “rispetto” (partecipazione alla cerimonia, una corona di fiori) in occasione dei funerali. In realtà, scrive il giudice, «Giovanni Paladino si era comunque recato all’interno del “fortino” della famiglia per porgere le condoglianze alla vedova, mascherandosi con occhiali e cappuccio per evitare di farsi riconoscere».
VISITA AL FORTINO Risale al 21 marzo 2015 la registrazione video che riprende il reggente Antonio Miceli – marito di Teresa Torcasio (condannata in abbreviato a 10 anni e un mese), nipote di Teresina Cerra – recarsi con Giovanni Paladino e il figlio Giuseppe «velocemente e furtivamente, nel covo della cosca». Un vista lampo dei due Paladino che salgono a bordo della Bmw guidata da Miceli. Arrivati al fortino Giovanni Paladino si preoccupa della presenza delle telecamere («qua avete visto se ce ne sono telecamere?») e poi intima al figlio di coprirsi col cappuccio del giubbotto («vabbè, tu alzati questo cappuccio»). «Inoltre, in tale contingenza – scrivono gli investigatori – Giovanni Paladino, mentre si accingeva a scendere dal veicolo per incontrarsi all’interno di quello stabile con Teresina Cerra (anziana capostipite del clan “Torcasio”) ed i suoi familiari ribadiva a quest’ultimo di travisare la sua identità indossando il cappuccio del giubbino (…si…si… scendiamo …mettiti il cappuccio….)». In quel periodo Teresina Cerra era sottoposta ai domiciliari. Gli inquirenti non hanno dubbi sul fatto che quella visita fosse dovuta a un interesse dei Paladino a chiedere sostegno elettorale per il figlio.
Ma, scrive con risicate parole il gup, «risulta carente la prova di una stabile messa a disposizione del professionista – e, di riflesso, di un rafforzamento della cosca per effetto di questo contributo – nel ristretto periodo temporale (febbraio 2015/31 maggio 2015) oggetto di contestazione». Le prove contro Giovanni Paladino, sono carenti, secondo il giudice, nell’arco temporale che riguarda la campagna elettorale del 2015.
«Manca, infatti, – scrive il gup – in tale limitato arco di tempo, evidenza di taluno di quei comportamenti indicati dai collaboratori come concreta manifestazione della volontà dell’imputato di concorrere, dall’esterno, alla sopravvivenza ed al rafforzamento del sodalizio mafioso (certificazioni mediche fasulle, cure ai consociati al di fuori del circuito ospedaliero etc.) fatta eccezione per la promessa – logicamente desumibile dalla conclusione dell’accordo elettorale e, comunque, confermata dalle parole del Miceli – del fatto de! terzo, ovverossia della disponibilità del figlio Giuseppe, ove eletto, ad operare nell’interesse della cosca». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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