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Calabria, nuove emigrazioni al tempo del Covid

In migliaia hanno lasciato la Calabria nell’ultimo anno. Diretti verso le aree più ricche del Paese e soprattutto fuori dai confini nazionali. Per lo più sono giovani con in tasca almeno un diploma…

Pubblicato il: 07/11/2020 – 7:18
Calabria, nuove emigrazioni al tempo del Covid

di Roberto De Santo
COSENZA Non sappiamo ancora quanto inciderà l’emergenza Coronavirus sull’esodo di calabresi verso altre mete. Ma i primi segnali parlano di un rallentamento avvenuto nei mesi del primo lockdown che ha portato molti giovani fuori sede a rientrare sul territorio calabrese. Inoltre ci sono i dati sulle immatricolazioni nelle università calabresi che indicano un incremento del numero di matricole. Così come di lavoratori che potevano lavorare in smart working che hanno scelto di riprendere l’attività stando nella regione. Segnali, timidi e decisamente provvisori, che però non tengono conto di questa nuova ondata di contagi che ha travolto anche la Calabria e soprattutto dell’istituzione della zona rossa in regione. Certo a guardare i dati riferiti allo scorso anno, comunque, il fenomeno dell’emigrazione di calabresi non si è mai arrestato. Anzi. Il flusso di quanti hanno lasciato la regione negli ultimi tre anni per espatrio segna una percentuale a doppia cifra: + 22,3%. Tanto da porre la Calabria al terzo posto nella classifica nazionale di italiani che hanno abbandonato il Paese per andare a vivere all’estero. Prendendo in considerazione solo il 2019 oltre seimila calabresi – per l’esattezza 6.383 – hanno scelto di emigrare verso altri Paesi. Per lo più del Vecchio Continente. Anche se sono stati tanti quelli che hanno varcato l’oceano per raggiungere Stati Uniti, Argentina, Brasile o Canada. Ma anche l’Australia. A fotografare la situazione pre-covid sono stati gli analisti della Fondazione Migrantes che, nella XV edizione del “Rapporto italiani nel mondo 2020”, hanno riportato numeri da brividi per quanto attiene l’esodo di calabresi dall’Italia: se nel 2018 erano 5.621 i cittadini che erano andati oltre i confini nazionali a cercare “fortuna” nell’anno successivo sono saliti a 6.383. Un dato che porta a far registrare un incremento di oltre 13 punti percentuali (13,6% per l’esattezza) in un anno. Con un risultato che pone la Calabria al terzo posto in classifica per crescita del numero di persone che sono andate via varcando anche i confini nazionali.
Ad abbandonare la Calabria per emigrare all’estero tra il primo gennaio del 2019 e dicembre dello scorso anno sono stati maggiormente giovani di sesso maschile: ben 3.606 uomini contro le 2.777 donne. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Migrantes, che ha preso a campione il numero degli iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) il 40,9% degli espatriati nell’ultimo anno aveva una fascia di età compresa tra i 18 e il 34 anni mentre il 23,9% tra i 35 e i 49 anni. Dunque tutte persone in piena età lavorativa o di formazione e con le migliori energie psico-mentali. In altre parole la Calabria perde – come anche altre regioni per la verità – le sue forze «più giovani e vitali – per utilizzare le parole degli analisti della Fondazione – capacità e competenze che vengono messe a disposizione di paesi altri che non solo li valorizzano appena li intercettano, ma ne usufruiscono negli anni migliori, quando cioè creatività e voglia di emergere sono ai livelli più alti per freschezza, genuinità e spirito di competizione».
E se ai dati sugli espatri si sommano quanti lasciano la Calabria per andare in altre regioni – sempre per lo più giovanissimi – il quadro della desertificazione demografica a cui vanno incontro i nostri territori non lascia ben sperare neanche per il futuro. Dal 2009 al 2018, secondo i dati Istat, hanno lasciato il Sud per trasferirsi al Nord 283mila giovani di cui 107mila in possesso di almeno la laurea. Al contrario le regioni del Centro-nord hanno guadagnato migliaia di nuovi cittadini con profili professionali alti provenienti appunto dal Mezzogiorno. In testa Lombardia ed Emilia-Romagna che hanno attratto nel decennio preso in considerazione 92mila giovani con in tasca un titolo di studio alto.
Scendendo nel dettaglio regionale emerge che la Calabria detiene il record nazionale in termini percentuali per cancellazioni rispetto ai nuovi residenti: un numero pari al triplo. Con il Crotonese in fondo alla classifica nazionale per attrattività: il numero di cittadini che si sono cancellati dalla residenza in questa provincia è oltre quattro volte superiore a quella dei nuovi iscritti. Un’escalation che sembra dunque inarrestabile e che spinge i calabresi – come altri cittadini del Sud Italia – a subire una doppia pressione verso l’esterno: una in direzione estero l’altra rivolta alle regioni più ricche. Senza contare il tasso di denatalità che si sta registrando tra le famiglie che risiedono in Calabria e che la condanna ad un perenne «inverno demografico» come l’ha definito Manuela Stranges, ricercatrice di Demografia all’Università della Calabria. La docente si occupa anche di migrazioni, rifugiati, benessere soggettivo e trasmissione intergenerazionale per conto del dipartimento di Economia Statistica e Finanza “Giovanni Anania” dell’Unical.
Professoressa a guardare i dati prosegue l’emorragia demografica: la Calabria resta dunque terra di emigrazione?
«Sì, la Calabria non ha mai smesso di essere terra di emigrazione. Negli ultimi anni, in realtà, questi flussi in uscita si sono intensificati, facendo registrare un aumento del +13,6% nel corso dell’ultimo anno. Questo dato preoccupa molto se letto anche in combinazione con la dinamica naturale (nascite meno decessi) negativa della nostra regione. Ecco perché più volte ho parlato di “inverno demografico” per la nostra regione: perché l’azione congiunta di denatalità, flussi migratori in uscita e scarsa attrattività per i flussi in entrata sta determinando un progressivo spopolamento della nostra regione. Al dato sulla diminuzione quantitativa della popolazione, si aggiunge anche quello del progressivo invecchiamento demografico della Calabria, dovuto alla già citata denatalità e all’allungamento dell’aspettativa di vita, ma anche al fatto che la struttura demografica è “erosa” nelle età centrali dai flussi migratori».

Italiani iscritti all’Aire (Fonte: Rapporto Migrantes”)

C’è un luogo comune: ad andare via dalla Calabria sono per lo più giovani con profili alti di formazione. I dati indicano che è in atto anche una migrazione di persone con in tasca solo un diploma che sono in cerca di occupazione. Cosa ne pensa?
«La quota più consistente di emigranti si ha nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni. Va da sé che si tratta in parte di giovani che decidono di emigrare prima di conseguire un titolo di studio terziario, e in parte da giovani che si spostano dopo il conseguimento della laurea. Questo si spiega anche in riferimento ai diversi canali occupazionali: le persone senza laurea trovano tipicamente occupazioni meno qualificate, mentre quelle con titolo di studio più elevati trovano impieghi più qualificati. In ogni caso, perdiamo la parte migliore del nostro capitale umano. Soprattutto perché quasi sempre questi giovani decidono di mettere su famiglia e radicarsi nelle aree di destinazione».
Si sta assistendo ad uno spostamento di calabresi non più e non tanto solo verso le regioni del Nord del Paese, ma in direzione dei Paesi europei?
«La dinamica interregionale della Calabria è negativa da diversi anni. Gli ultimi dati disponibili segnalano circa 12 iscrizioni e 18 cancellazioni per 1.000 residenti. Sono stati oltre 2.000 i calabresi che hanno lasciato la nostra regione verso altre regioni italiane nell’ultimo anno. A questa dinamica interregionale sfavorevole, si unisce il dato dei flussi verso l’estero che hanno da sempre costituito una quota rilevante dei flussi emigratori complessivi, riprendendo vigore negli ultimi anni. Basti pensare che nel 2020, complessivamente i calabresi iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) per espatrio sono risultati quasi 6.400, con un incremento del 12% rispetto all’anno precedente».
E inoltre c’è in atto da anni un fenomeno migratorio accentuato delle aree interne. Il vero divario non è dunque tra Nord e sud, ma tra aree interne e città?
«In realtà sono presenti entrambi i divari. A livello complessivo abbiamo un’Italia a due velocità dal punto di vista demografico, con un Nord che cresce (non solo per i flussi migratori in ingresso ma anche per una dinamica naturale più positiva) e un Mezzogiorno in recessione per via dell’azione congiunta di una dinamica naturale e migratoria entrambe negative. Nello specifico, i flussi emigratori in uscita non sono compensati da flussi migratori in entrata, neanche di stranieri (la nostra regione è spesso terra di transito ma non di residenza definitiva). Dall’altra abbiamo le dinamiche specifiche dei territori che vedono le aree più interne e marginali (le aree montane, ad esempio) perdere popolazione a favore delle aree urbane e dei comuni della cintura urbana. Questo fenomeno è legato prevalentemente al fatto che le aree interne, montane e periferiche sono spesso caratterizzate da una scarsità di servizi che spinge le persone a spostarsi verso aree con maggiore dotazione».

Come sta incidendo l’emergenza sanitaria sui flussi migratori dei calabresi? Il timore dell’elevata contagiosità di alcune aree del Paese e del mondo potrà spingere alcuni calabresi a rientrare?
«Al momento non abbiamo dati a sufficienza per comprendere come sta evolvendo la situazione delle migrazioni interne a causa del Covid. Credo che difficilmente chi ha un progetto di vita stabile e radicato in un’altra regione (e quindi un lavoro, una famiglia propria) prenda in considerazione l’idea di rientrare. Abbiamo assistito a dei rientri nei mesi scorsi, ma si trattava per lo più di giovani che non avevano ancora un progetto di vita stabile nel luogo in cui si trovavano e per i quali, dunque, il rientro non implicava l’abbandono di qualcosa. Inoltre, sono rientrati quelli che svolgevano un lavoro che poteva essere svolto anche a distanza, con il cosiddetto smart working. Queste condizioni, però, non si applicano a tutti i lavori. Inoltre, bisogna anche considerare che negli ultimi mesi la situazione dell’emergenza covid nella nostra regione è radicalmente cambiata. Siamo passati da una situazione di quasi assenza di contagi ad un deciso aumento che, pur essendo al di sotto dei valori per abitante e per tampone registrati in altre regioni, ha comunque fatto finire la Calabria in zona rossa, principalmente a causa delle note carenze della nostra sanità che non consentono la gestione di grossi numeri. Quindi molto verosimilmente, non assisteremo alle “fughe” dal Nord che abbiamo registrato nel corso della prima ondata».
Si parla di South working crede che sia un fenomeno che prenderà piede anche in Calabria? Come favorirlo?
«È sicuramente un fenomeno che abbiamo registrato con la prima fase del covid ma, per tutte le ragioni elencate in precedenza, non sono certa che possa diventare un “modello” applicabile in maniera estensiva anche una volta finita l’emergenza. Oltre al fatto che non tutti i lavori possono essere svolti a distanza, c’è un ulteriore elemento che bisogna tener presente. Spesso chi lascia la propria regione non lo fa solo ed esclusivamente per mancanza di lavoro e ragioni economiche. Ad esempio, ci sono settori che hanno possibilità occupazionali anche qui nella nostra regione (uno fra tutti quello dell’Information Technology) ma spesso i nostri laureati scelgono volontariamente di andare a lavorare fuori regione. Questo perché le regioni del nord offrono più servizi e maggiori opportunità in tanti ambiti (pensiamo all’offerta culturale). Ci sono studi sulle ragioni dell’emigrazione nei quali si mostra come spesso pesi anche il fatto di poter vivere in un contesto socio-culturale molto diverso da quello calabrese, sganciati dalle ben note logiche che caratterizzano il nostro tessuto sociale. Di contro, occorre considerare che il costo della vita più basso e la possibilità di avere vicino la famiglia di origine potrebbero essere elementi a favore di questa scelta. Ma credo che, per favorire lo smart working, sarebbe comunque necessario un miglioramento delle condizioni socio-economiche complessive della nostra regione. Il lavoro in sé e per sé e i costi ridotti potrebbero, dunque, non essere un incentivo sufficiente a rimanere in Calabria».

Il fenomeno dell’emigrazione dalla Calabria è ineluttabile o diversamente potrebbe essere invertito il trend o quantomeno rallentato? E quali politiche utili per contrastare l’esodo?
«Purtroppo l’emigrazione è il risultato dello scarso sviluppo socio-economico che caratterizza la Calabria, al pari di altre regioni meridionali. La crisi ingeneratasi dal 2008 non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Prima del Covid le aree meridionali, compresa la Calabria, non avevano manifestato grossi segni di ripresa. Credo, addirittura, che questa condizione della pandemia peggiorerà la situazione in futuro. Al momento gli spostamenti sono molto difficoltosi ma è probabile che molti calabresi che oggi stanno sperimentando le ristrettezze dovute a questa situazione decideranno di lasciare la nostra terra non appena possibile. Per rallentare l’emigrazione (invertire la tendenza mi sembra irrealistico allo stato) sarebbe necessario lavorare per risollevare la nostra regione dal punto di vista socio-economico, creando posti di lavoro per i giovani, magari puntando sui settori strategici che purtroppo ancora sono sottoutilizzati rispetto al potenziale (penso, ad esempio, al turismo) o su quelli in via di espansione (come, appunto, l’IT). Considerando il basso tasso di occupazione femminile nella nostra regione, sarebbe utile anche avere una maggiore attenzione verso i servizi e gli strumenti di conciliazione, che potrebbero avere il duplice vantaggio di aumentare la partecipazione al lavoro delle donne e aumentare la natalità». (r.desanto@corrierecal.it)

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