BISIGNANO «Volevano “bruciarmi vivo” perché io non ho pagato il pizzo. Alla fine non mi hanno bruciato vivo, ma sono stato costretto a chiudere la mia attività». Giuseppe La Riccia, classe 1960, ormai ex imprenditore di Bisignano racconta con profonda amarezza la sua storia di vittima del racket, disilluso dalle istituzioni. Titolare del pastificio “La Riccia” che sorgeva nella zona industriale di Bisignano, nel Cosentino, anni prima dell’apertura del suo stabilimento avvenuto nel 2003 aveva subito minacce e poi danneggiamenti. «Non avevamo ancora prodotto neppure un chilogrammo di pasta nella mia azienda che ho subito le prime intimidazioni prontamente denunciate». Poi le auto distrutte dalle fiamme dopo gli avvertimenti. Ma l’imprenditore cosentino decide di non piegarsi, anzi. «Personalmente – ci racconta – ho deciso subito di non aderire alla benché minima richiesta ed ho subito denunciato».
La strada di La Riccia così parte subito in salita. Nonostante l’azienda sia nata «con un ottimo know-how figlio di un significativo bagaglio di esperienze iniziate molti anni prima con il primo negozio di pasta fresca gestito da mia moglie» e con «la scelta simbolica di realizzare l’opificio all’interno di quello che era stato l’accampamento logistico del passaggio dell’imperatore Carlo V in questa zona». Da qui l’idea di realizzare lo stabilimento richiamando le sembianze di un castello medioevale «primo passo per la creazione del marchio identitario “Pasta dell’Imperatore”». «Inserita nel comparto dei pastifici, con prevalente produzione di prodotti di pasta di alta qualità commercializzati soprattutto all’estero (Francia, Olanda e Germania) – ricorda La Riccia – era arrivata a contare 15 dipendenti». Poi le pressioni, le minacce, l’allontanamento della clientela e le difficoltà con le banche, arrivate, proprio dopo le sue denunce a chi «pretendeva il pizzo». «Non era una gestione tranquilla – spiega l’ex titolare del pastificio – tutto era pesantemente condizionato, sia dall’attenzionamento delle Forze dell’ordine, sia da quello del racket».
«Benché l’attività estorsiva, nel corso degli anni, si è configurata con innumerevoli telefonate minatorie, attentati, furti e incendi di automezzi personali e strumentali alla gestione dell’attività del pastifico, che hanno pesantemente condizionato lo stile di vita dell’intera famiglia, gli inquirenti non hanno individuato i responsabili. Anche se l’ attenzionamento accordato in Prefettura era alto». Infine la chiusura dell’attività nel 2010.
Quel che segnala con amarezza l’ex imprenditore è stato ciò che è avvenuto dopo quelle denunce. «La parola giusta per sintetizzare l’atteggiamento che ho registrato in tanti – bolla La Riccia – è pusillanimità. Riscontrata ancora oggi, da parte di operatori commerciali, imprenditori e organizzazioni di categoria, che li spinge a “stare lontani” da chi è stato a qualsiasi titolo interessato dal racket».
Secondo La Riccia, «è pusillanime colui il quale pur apprezzando le tue qualità professionali, venendo a sapere che ti sei opposto al racket, cessa ogni contatto per paura di ritorsioni. Ci sono pusillanimi tra i “parenti” e tra gli “amici”, ma quello che fa più male è la pusillanimità istituzionale e politica». «Fa più male – spiega – perché ti trae in inganno, facendoti perdere il tempo e la speranza». «Ancora oggi qui in Calabria – afferma poi La Riccia – si preferisce non circondarsi di persone che si sono opposte allo strapotere del racket, poiché, probabilmente si è ormai consolidata una “voce contabile” nei propri bilanci, destinata al pagamento del pizzo. E l’avere come amico chi si è opposto al racket potrebbe far rialzare il prezzo della tangente che già l’imprenditore paga. Una sorta di meccanismo che funziona come il bonus/malus delle assicurazioni e che scatta in peius qualora si intrattengono rapporti di qualsiasi natura con chi ha ripudiato il racket».
E poi c’è quello che definisce il «boicottaggio lavorativo». «Il boicottaggio – illustra la vittima del racket – si può circostanziare con la messa in atto di campagne denigratorie sulla clientela dell’azienda che si è opposta al sistema. Praticamente la clientela è costretta a desistere dall’intrattenere rapporti commerciali con l’azienda interessata». Un gioco perverso in cui è finito lo stesso La Riccia: «Anzi, nel mio caso sono andati oltre». «Anche se nato da poco tempo – racconta nel dettaglio l’ex imprenditore – il pastificio La Riccia aveva ricevuto il consenso di un socio importante, operativo nello stesso comparto. Si trattava di produrre un quantitativo considerevole di un determinato formato di pasta artigianale non più fresca bensì secca, destinata al mercato svizzero. In particolare l’operazione era finalizzata a realizzare “le tagliatelle Schumacher” dal nome del grande campione di Formula 1 appassionato di questo genere di pasta e che aveva dato il consenso (dietro lauto compenso) all’uso della sua immagine per garantire un forte battage per questo prodotto. Le tagliatelle si sarebbero dovute produrre in esclusiva nella mia azienda a Bisignano». Tutto pronto ma poi succede qualcosa: «un momento prima di ufficializzare il connubio societario dopo aver attraversato un iter di verifica molto circostanziato, sia a livello ministeriale sia di garanzie bancarie concordate con specifico accordo socio/banca, la “fusione” societaria si è inspiegabilmente interrotta. Senza una spiegazione plausibile». «Ricordo anche la marca dello champagne utilizzato per festeggiare in un ristorante di “Cruditè”, al ritorno da Bari dove si trovava la direzione generale della mia Banca di riferimento. Solo dopo tanto tempo ho realizzato il perché, adducendo le motivazioni ad un’azione dissuasiva occulta messa in atto nei confronti del socio, che si è ritirato».
Ed anche le banche non si sarebbero rivelate clementi con La Riccia: «il sistema bancario classifica come “lebbrosi” chi ha avuto la sfortuna di essere attenzionato dal racket». «Nella mia fattispecie – specifica con una punta di amarezza non velata – le vicissitudini della mancata operazione societaria hanno rappresentato il definitivo declino di ogni rapporto fiduciario con il sistema bancario, tanto che sono stato costretto a cedere la struttura del pastificio per non trovarmi coinvolto in un’asta giudiziaria». Una vicenda che ha registrato anche una beffa: «Con l’aggravante che essendo la mia una ditta individuale e non una società a responsabilità limitata ha dovuto produrre garanzie patrimoniali aggiuntive per cercare di utilizzare i fondi antiusura».
Ed è in questo sistema di “aiuti” per chi si oppone ai clan che l’ex imprenditore denuncia anomalie. Tali da «vanificare gli effetti» e «creando vittime del racket di serie A e serie B».
Secondo La Riccia, la legge 23 febbraio 1999 n.44 che ha istituito il fondo antiusura «in realtà si è rivelata farraginosa e burocratizzata all´inverosimile». «Ho attraversato infruttuosamente l’iter burocratico/amministrativo di ben tre istanze in base alla Legge 44/99 – spiega l’ormai ex imprenditore – per riattivare la mia attività, quando ancora si poteva fare. Oggi a causa di incongruenze legislative in materia di tutela riservata a chi è inserito “borderline” in questa problematica, mi trovo in condizione di estremo disagio». La questione sollevata da La Riccia si annida nel meccanismo che sta alla base della graduatoria per accedere al sostegno per cui «chi ha “solo” denunciato i primi approcci con gli emissari del racket e per questo ha “solo” subito danneggiamenti personali e patrimoniali, inequivocabilmente provocati dagli stessi malfattori (criminalità organizzata) è penalizzato rispetto alle altre vittime». «In buona sostanza – afferma “beffardamente” La Riccia – se si perde la propria azienda, che in seguito a numerosi atti intimidatori regolarmente e prontamente denunciati è stata inevitabilmente chiusa, non si ha diritto ad essere tutelato economicamente, poiché la Legge 44/99, non contempla tale eventualità». Da qui l’appello a modificare una norma nazionale a cui è seguita anche quella regionale in materia (L.R. n° 9 del 26/04/2018) che «stralciata da tutte le previsioni innovative e migliorative, si è praticamente rivelata una “Falsa riga” della Legge 44/99».
«Da tempo – rilancia La Riccia – sto proponendo a tutte le compagini politiche che si avvicendano a “governare” la Regione Calabria, degli interventi atti a mitigare il disagio socio/economico di una folta schiera di vittime della criminalità organizzata, che non hanno lo status giuridico di testimone di giustizia». La proposta punta a revisionare e semplificare quella legge regionale. Ed in particolare, espone La Riccia questa proposta al vaglio dell’ufficio legislativo della Regione Calabria punta a, «eliminare i limiti di tempo fra l’accadimento vessatorio e l’azionamento delle previsioni della stessa Legge, istituire il primo “Albo dei vessati” della Regione Calabria, eliminare le differenze giuridiche fra vessati di serie “A” e vessati di serie “B” istituendo “i testimoni di legge” ed avocare all’utilizzo esclusivo della Regione Calabria le somme di denaro contanti (sequestrate e confiscate) alla criminalità Organizzata in Calabria, da destinare a beneficio delle Vittime della Criminalità di Calabria, per particolari situazioni socio/economiche». «Ma adesso come è facile intuire – ricorda La Riccia – bisogna aspettare la nuova amministrazione regionale». A questo proposito si è fatto recentemente anche promotore di un’iniziativa tesa proprio a «tentare di riunire sotto un unico tetto tutti i vessati dalla criminalità». «Tutti insieme – conclude La Riccia – possiamo contrastare il racket, con un nuovo Progetto: “Ndrangheta: dal rifiuto, alla rinascita, la Calabria anche così, cambia verso”». (r.desanto@corrierecal.it)
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