Le parole sono armi potenti. Possono ferire, emozionare, illudere, ingannare; tutto questo a discrezione dell’etica dell’individuo che ne fa uso. I provvedimenti giudiziari vanno letti, studiati e analizzati con lucidità prima di scrivere o parlare.
Lo dico senza ipocrisia: non sono un fan di Nicola Gratteri e non faccio parte della schiera che grida giustizia per opportunità e si erge a, comando, paladino di un’antimafia di facciata. Alle parole devono seguire i fatti e “i fatti sono testardi” non lasciano scampo alla passione o all’emozione. La verità dei fatti non si ingabbia, bisogna farsene una ragione.
L’operazione della Dda di Catanzaro denominata Alibante mette in luce un quadro inquietante e per certi versi conosciuto. Ho perplessità sull’impianto accusatorio per alcune imputazioni – lo dico senza infingimenti – di cui in sede dibattimentale sono certo si approfondirà e chi è coinvolto potrà dimostrare estraneità ai fatti contestati. Il garantismo è valore a cui ogni stato di diritto deve mirare. Dall’altro canto, però, non comprendo il silenzio assordante di una classe dirigente che si guarda bene dal prendere parte a discussioni su temi scivolosi e pieni di insidie. Una classe dirigente che ha perso la capacità di lettura del contesto e guarda da semplici spettatori il declino di un territorio.
Andiamo per ordine.
Emerge un presunto sistema che indipendentemente dall’evolversi del quadro giudiziario preoccupa e chiama a riflessione la politica, le istituzioni, i cittadini, i giovani che quotidianamente vivono queste realtà.
La pervasività della ‘ndrangheta è un pericolo per l’economia sana, per la libera concorrenza, per gli operatori economici onesti e per una società civile che non piega la testa. Un fenomeno che si evidenzia è che la criminalità organizzata ha uomini chiave in diversi settori, una infiltrazione a tutti i livelli che blocca lo sviluppo di intere comunità. Comunità che soffocate dal giogo mafioso si lasciano andare alla retorica, agli alibi di affermazioni come: “Si è sempre fatto così! Chi me lo fa fare?! Tengo famiglia”.
Dalle carte dell’inchiesta spicca il ruolo di deus ex machina di Carmelo Bagalà, personaggio che ha fatto il bello e cattivo tempo, uomo di riconosciuta abilità che ha gestito in modo capillare attività influenzando interi settori della società.
Il Bagalà attraverso, cito testualmente, «una condotta che poteva essere definita low profile, si attestava quale dominus, soprattutto nel settore delle estorsioni, dell’usura, e nella gestione di diverse attività economiche e finanziare di quel territorio».
Dal provvedimento giudiziario si evince: «L’indagato presenta una caratura criminale degna di nota in ragione della sua intraneità alla ‘ndrangheta, dei suoi collegamenti con ambienti altamente criminogeni di matrice mafiosa e dei metodi dallo stesso utilizzati; elementi, questi, che denotano un’esistenza dedita al crimine».
Un sistema che non lascia dubbi e ambiguità e che permette di controllare il respiro, il battito di un territorio.
Territorio dalle mille risorse con potenzialità inespresse, vittima di un metodo e di una cultura che ci ha chiuso nel recinto della rassegnazione. Sguardo basso, voce sottotono questo l’imperativo per non disturbare gli altari sacri dell’intreccio di un potere consolidato.
La lotta alla ‘ndrangheta non si vince solo nelle aule di tribunale, ma si vince creando un consapevolezza dell’importanza dell’affermazione della legalità come prerequisito essenziale per la rinascita di una terra come la Calabria. Qui entra in gioco l’importanza di una società civile che comprenda il valore del proprio ruolo e che deve rimanere al fianco di chi si ribella, di chi prende posizione. L’isolamento è il regalo più grande che si possa fare alla criminalità e al sistema perverso. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di cittadini che si assumano le proprie responsabilità. Una normalità di cui sentiamo il bisogno.
Siamo pronti? A voi le risposte, e quindi i comportamenti.
*attivista politico
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