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Civiltà rurali, il Festival delle Erranze e della Filoxenia

Negli ultimi anni ben 15 città della Terra hanno superato i 20 milioni di abitanti. Nel 2030 almeno i due terzi dell’Umanità vivrà stipata in grandi agglomerati urbani. Nella sola Milano, gran par…

Pubblicato il: 25/06/2021 – 10:00
di francesco bevilacqua*
Civiltà rurali, il Festival delle Erranze e della Filoxenia


Negli ultimi anni ben 15 città della Terra hanno superato i 20 milioni di abitanti. Nel 2030 almeno i due terzi dell’Umanità vivrà stipata in grandi agglomerati urbani. Nella sola Milano, gran parte della popolazione vive in minuscoli monolocali anche di 20, addirittura 15 mq. Nelle moderne metropoli mondiali trovi divertimenti, musei, teatri, mercati, ospedali ma anche indifferenza, violenza diffusa, povertà relegata in enormi slums e favelas prive di igiene e servizi. Alla eccezionale densità abitativa delle città corrisponde, paradossalmente, una mancanza di relazioni umane: si vive come automi isolati in gusci individuali iperprotettivi. Nel Rinascimento le città erano sinonimo di “civiltà” (dai vocaboli latini “civitas” = città e “civis” = cittadino). Con questo termine si intendono due cose: da un lato il complesso degli aspetti culturali spontanei e organizzati relativi a una collettività in una data epoca (ad esempio, la civiltà minoica); dall’altro uno stato di equilibrio politico ed economico, fondato sulle istituzioni e sul progresso tecnico (quando si dice: “quel popolo ha raggiunto un notevole grado di civiltà”). Solitamente, dunque, sia per etimologia che per significato, la parola “civiltà” è annessa a contesti urbani e tecnologici (industriali o post-industriali) particolarmente sviluppati. Per chi vive in contesti urbani, densamente popolati ed industrializzati, “civiltà” è senso di protezione, delega politica, realtà virtuale, omologazione culturale, bulimia consumistica. Il contraltare di tutto questo sono le campagne ed i piccoli paesi che, salvo inversioni di tendenza, tenderanno sempre più a spopolarsi. Arundhati Roy denuncia in un suo libro di qualche anno fa, come almeno 30 milioni di contadini e pastori siano stati espropriati delle proprie terre e deportati nelle periferie apocalittiche delle metropoli indiane per far posto ad enormi invasi artificiali destinati a fornire acqua ed energia a città, industrie, colture intensive. Lo stesso è accaduto in Cina e sta accadendo in molti altri paesi del Terzo Mondo, dove le multinazionali italiane fanno affari d’oro corrompendo i politici locali.
Nei contesti rurali (campagne e piccoli paesi), a torto ritenuti arcaici e sottosviluppati, spesso mancano i servizi essenziali, comunicazioni adeguate, presidi sanitari, vi sono poche occasioni lavorative, ma in compenso vi è la possibilità di procurarsi cibo più genuino, di vivere con meno stress, di stare più a contatto con la natura, di intessere relazioni umane più autentiche e, non ultima la possibilità di creare nuove forme di sviluppo sostenibile. Per chi vive in questi contesti, dunque, il termine “civiltà” è scuola di sopravvivenza quotidiana, abitudine a farsi “istituzioni” personalmente, realtà naturale, creatività, innovazione, distinzione, sobrietà. Ovviamente i confini fra questi due diversi modi di intendere la “civiltà” non sono così netti. Ma nei paesi e nelle campagne, l’essere “cittadini” è cosa del tutto diversa. Non è un caso che con la pandemia sia esploso, ad esempio, il fenomeno del “south-working”, ossia delle persone che vengono a vivere
ed a lavorare in piccoli paesi del Sud Italia (anche in Calabria), attraverso moderne forme di lavoro a distanza (le stime oscillano fra i 50mila ed i 100mila). Inoltre, nei contesti rurali del Sud rinascono in forma moderna attività imprenditoriali legate alle vocazioni dei luoghi e cresce la coscienza sociale della tutela del territorio. Per questi motivi occorre convincere e soprattutto convincerci – chi vive in contesti rurali del Sud e non solo del Sud – che anche noi possiamo essere protagonisti di una “civiltà”, anzi di una diversa
forma di civiltà, più resiliente, meno omologata, più attiva, identitaria e nello stesso tempo plurale, pronta alla comprensione dell’alterità ed allo scambio interculturale. È questo il tema dell’edizione 2021 del Festival delle Erranze e della Filoxenia che si svolgerà anche
quest’anno nell’area dei monti Reventino e Mancuso, con iniziative varie, camminate “narrate”, musica nei borghi e nei boschi, conoscenza di antichi saperi che si stanno rigenerando, incontri con autori. Il festival è interamente autogestito da una serie di associazioni e di singoli, non ha un direttore artistico, siamo tutti volontari e ci autofinanziamo senza ricorrere né a contributi pubblici né a sponsor commerciali. L’idea è quella di far crescere la consapevolezza in chi vive in aree marginali che per ottenere giustizia, servizi, opportunità di lavoro occorra che i cittadini divengano “istituzioni” essi stessi. E perché ciò accada bisogna partire dalla reale conoscenza dei territori, dei paesaggi, delle risorse locali, gradualmente venuta meno. Diceva Ernesto De Martino che per essere davvero cosmopoliti e non provinciali occorre avere un villaggio vivente nella memoria.
*Avvocato e scrittore

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