LAMEZIA TERME Polverizzazione delle risorse attraverso un meccanismo di distribuzione a pioggia, bassa capacità di spendere le somme stanziate per infrastrutture, investimenti ed innovazione. Così miliardi di euro stanziati in Calabria per creare sviluppo ed occupazione nel settore agricolo vengono fagocitati senza risolvere le principali debolezze dimostrate dal comparto primario, ma soprattutto innalzarne la capacità di competere realmente sui mercati. Anzi, alcune criticità nel tempo si sono anche acuite. Ad iniziare dall’abbandono dei terreni agricoli, dal calo dell’occupazione e dal progressivo depauperamento delle aree interne della regione.
Un quadro disarmante che emerge dalla lettura dei dati sulla gestione complessiva delle risorse che sono arrivate in Calabria negli ultimi decenni. Somme che si sono moltiplicate con l’avvio delle programmazioni comunitarie a favore dell’agricoltura delle zone in ritardo di sviluppo, come quella calabrese, ma i cui effetti sono stati sterilizzati soprattutto da un sistema di sostegno che garantisce soldi a prescindere dalla capacità di generare valore aggiunto e posti di lavoro sul territorio.
Un paradosso che si traduce in una sorta di trasferimento automatico delle ingenti risorse giunte in Calabria distribuendole a tutte le imprese agricole spesso solo per l’esclusiva ragione di gestire terreni. Automatismi che compromettono la possibilità di far crescere realmente la filiera produttiva agricola calabrese e conseguentemente consentire al comparto primario di contribuire allo sviluppo socio-economico dell’intera regione.
Sono oltre 27 miliardi di euro gli stanziamenti che sono stati destinati all’agricoltura calabrese dal 1989 ad oggi. Si tratta del totale delle risorse stanziate dalle programmazioni comunitarie attraverso i due pilastri della Politica agricola comune (Pac) a cui si aggiungono le somme dei fondi statali, regionali e le agevolazioni dedicate all’agricoltura. In particolare in questi decenni, secondo i dati raccolti dal Corriere della Calabria, sono arrivati per finanziare misure di sostegno al comparto primario regionale oltre 3,141 miliardi dal II pilastro, per intenderci quello destinato a finanziare i Programmi di sviluppo rurale (Psr) e circa 8 miliardi dal I Pilastro. In questo caso, in gran parte si tratta di sostegni diretti al reddito degli agricoltori e vengono loro erogati direttamente in virtù del rispetto di alcune condizioni di svolgimento dell’attività: sicurezza alimentare, ambiente e benessere degli animali.
Poi ci sono oltre 12 miliardi stanziati dal bilancio regionale nel corso di questi decenni per finanziare il settore agricolo calabrese, oltre mezzo miliardo (per l’esattezza 576 milioni) dalle varie manovre finanziare nazionali dedicate alla Calabria ed infine 3,2 miliardi di misure agevolative previste per garantire l’attività di imprenditori e agricoltori calabresi. Un mare dunque di risorse che avrebbero dovuto stravolgere le sorti del comparto calabrese e che invece non sono state in grado di rafforzare le filiere produttive rendendole realmente competitive. Ma neppure di superare le criticità che il comparto registra da tempo.
Passando in rassegna i dati sui pagamenti effettuati al comparto tra il 2000 e il 2019, emerge che la capacità di spesa dimostrata dagli enti pagatori in Calabria è decisamente sbilanciata a secondo dell’attività da finanziare. Così se per saldare le attività forestali e degli organismi associativi la media annuale in questo lasso di tempo è stata superiore all’ 84% delle somme stanziate nell’anno, per spendere risorse destinate a finanziare servizi allo sviluppo quella media scende al 43% e addirittura al 23% per investimenti in infrastrutture. Ancora più bassa la capacità dimostrata nell’utilizzare le risorse previste nell’anno a favore degli investimenti aziendali. In questo caso la media della spesa effettuata tra il 2010 e il 2019 è stata pari al 9,5% delle risorse annue previste.
Percentuali che delineano in maniera plastica i limiti della macchina burocratica regionale.
Quando si tratta di pagare premi secchi, cioè somme stanziate per saldare attività che non prevedono programmazione, praticamente vengono utilizzate tutte le risorse a disposizione. Viceversa quando si tratta di utilizzare somme da destinare agli investimenti, allo sviluppo e alle infrastrutture la macchina burocratica rallenta tanto da non sfruttare appieno l’intera posta in palio. A tutto svantaggio della capacità di rilanciare il comparto.
E gli effetti di questa distorsione dell’utilizzo delle risorse a disposizione per l’agricoltura, comportano l’incapacità per la Calabria di sciogliere alcuni dei nodi che compromettono lo sviluppo dell’intera filiera produttiva: la dimensione media aziendale decisamente bassa, il progressivo abbandono delle superfici agricole e lo spopolamento delle aree interne.
Analizzando i dati forniti dall’Istat, emerge che, nonostante i miliardi spesi, la dimensione media aziendale in Calabria è pari 5,7 ettari. Un valore in crescita rispetto al passato – nel 1970 era 3,41 – ma lontano dagli oltre 11 ettari della media nazionale.
Un dato che diventa più critico se confrontato sull’andamento della superficie totale e della superficie agricola utilizzata negli anni in Calabria. Ad esempio dal 1970 al 2010, si è perso il 46% della superficie totale e il 35% della superficie agricola utilizzabile. A dimostrazione che è in atto un fenomeno di abbandono dei terreni.
Un fenomeno ancor più accentuato nelle aree interne della regione. A questo proposito, secondo i numeri forniti dall’Istat, dal 1971 ad oggi la Superficie agricola utilizzata (Sau) è diminuita in Calabria del 25% nelle aree periferiche e ultra periferiche mentre la flessione nelle zone intermedie è stata pari al 21%.
Minore possibilità di sviluppo del settore, che per decenni ha garantito sostentamento ad intere aree regionali, maggiore la probabilità di spopolamento di queste zone. Così dal 1991 al 2019 l’Istat annota in Calabria una flessione dei residenti pari al 18,17% nelle aree periferiche e del 10,59% in quelle ultra periferiche. A differenza della media regionale che in questo lasso di tempo è stata pari a -1,46%.
Così come i numeri degli occupati in agricoltura dal 1972 al 2019 dimostrano in maniera emblematica quello che è stato un vero e proprio collasso economico per il settore primario. Si è infatti passati da circa 200mila occupati a 69mila. Senza contare che quest’ultimo dato, in realtà è “falsato”, visto che comprende anche quanti risultano assunti, ma solo a fini “assistenziali”.
Elementi, tutti, che se messi in fila rappresentano una sorta di cartina al tornasole per valutare gli effetti di questa metodologia finora usata in Calabria per gestire le risorse pubbliche dedicate all’agricoltura.
Mancanza di strategia e di convergenza di risorse su obiettivi chiari assieme alla scarsa attenzione alla valorizzazione delle produzioni.Sono i “guasti” che segnala Franco Gaudio, ricercatore della postazione regionale della Calabria del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria)-Centro di ricerca politiche e bioeconomia di Rende, nel sistema di gestione delle risorse dedicate all’agricoltura. Una gestione che finora non ha risolto «nessuna delle problematiche di cui soffre l’agricoltura calabrese». Per questo il ricercatore che da anni segue le politiche agricole calabresi, invita a riprendere «un approccio di filiera» nelle programmazioni future
A leggere i dati, i limiti del comparto agricolo sono rimasti sostanzialmente immutati. Cosa non ha funzionato delle programmazioni delle risorse dedicate al settore?
«In effetti dal 1990 a oggi, nonostante 5 programmazioni comunitarie, il comparto agricolo ha dovuto affrontare sempre gli stessi problemi che sono stati evidenziati all’interno dei programmi (Psr e Programmi operativi) man mano approvati. Il punto è che dei diversi elementi di debolezza (polverizzazione fondiaria, basso spirito associazionistico, basso livello imprenditoriale, bassa organizzazione dell’offerta, scarsa adozione di innovazione, bassa integrazione con industria di trasformazione) evidenziati nell’ambito delle diverse programmazioni nessuno è mai stato aggredito in maniera decisa. I fondi sono stati dispersi tra molte misure e tra molti interventi senza alla fine risolvere nessuna delle problematiche di cui soffre l’agricoltura calabrese. Ma nello stesso tempo non sono stati valorizzati i punti di forza che sono presenti nell’agricoltura calabrese. Ad iniziare dalla valorizzazione delle produzioni certificate (Dop, Igp, bio). In una delle precedenti programmazioni si puntò molto sulle filiere agricole in un approccio multidisciplinare e che coinvolgeva tutti i soggetti della filiera. Era un approccio che ci fu copiato anche da altre regioni e che andava perseguito e magari migliorato anche successivamente. E, invece, fu interrotto ritornando a distribuire le risorse in un’ottica individuale e non di sistema. L’approccio di filiera, invece, tentava di aggredire i problemi presenti lungo tutta la filiera. Spero che questo approccio venga ripreso per la futura programmazione».
Questa sorta di distribuzione a pioggia delle risorse è stata solo una scelta politica?
«La scelta è stata quella di accontentare tutti almeno nel presentare le domande di aiuto attraverso un meccanismo caratterizzato da pochi filtri in termini di selezione dei comparti produttivi e dei territori a vocazione interessati. Anche se era chiaro sin dall’inizio che poi solo alcuni sarebbero riusciti ad ottenere i finanziamenti. Ma questo sistema nel frattempo ha comportato ritardi nell’erogazione dei contributi per via di ricorsi alle domande e successive nuove valutazioni. Un meccanismo che ha comportato non pochi problemi: molte le domande presentate ma poche le aziende beneficiarie (una su dieci). Inoltre i tempi che intercorrono tra la presentazione della domanda e l’erogazione dei contributi per interventi di investimenti è decisamente lungo: pari a tre-quattro anni. Tempi davvero biblici per un imprenditore che vuole apportare innovazioni all’interno della sua azienda. Questi tempi sono uguali in tutte le programmazioni. Possibile che non si riescano a prevedere semplificazioni che contemporaneamente riducano i tempi per l’erogazione dei contributi e garantiscano un controllo sui finanziamenti richiesti?».
Eppure le produzioni regionali vantano eccellenze e la Calabria detiene record per le coltivazioni biologiche. Come mai non riusciamo ad imporci sui mercati?
«Siamo la seconda regione in Italia dopo la Sardegna in termini di incidenza della superficie coltivata a biologico sulla superficie totale, vantiamo diverse coltivazioni certificate a Dop e Igp. Nell’ambito europeo, l’Italia è il primo Paese per prodotti Dop e Igp (sono circa 300). La Calabria ne conta 39 (la cipolla rossa di Tropea, la soppressata, le patate della Sila, il vino Cirò, il vino Savuto). Negli ultimi dieci anni la Calabria è passata da 4 mila ettari a circa 13 mila ettari. Ma se si esclude la filiera del vino e quella della cipolla rossa che presentano buoni risultati, le altre produzioni vedono una partecipazione dei produttori ai diversi prodotti di qualità alquanto modesta. Stesso discorso vale per le produzioni biologiche più interessate ai premi del Psr che ad una valorizzazione sul mercato con prezzi adeguati. Manca una promozione di questi prodotti a livello regionale, promozione che potrebbe essere prevista all’interno dei programmi di sviluppo rurale e con fondi ordinari del bilancio regionale».
Prezzi sempre più al ribasso e costi di produzione in crescita. Un meccanismo che rischia di stritolare un sistema produttivo agricolo come quello calabrese particolarmente debole perché polverizzato. Quale risposta occorrerebbe dare per difendere la tenuta del settore?
«Sulla base di quanto detto prima ai costi di produzione sempre in crescita non corrisponde una valorizzazione dei prodotti in termini di prezzi. L’adesione ai prodotti certificati (Dop, Igp, Bio) da parte dei produttori tarda ad affermarsi, per cui ogni produttore è costretto individualmente a risolversi il problema e spesso lo risolve riducendo il costo del lavoro e non facendo investimenti sulla promozione della qualità delle sue produzioni. Mentre andrebbe prevista una maggiore concentrazione dell’offerta, garantire una maggiore qualità del prodotto e una politica commerciale più incisiva sui mercati italiani e internazionali che riconosca il giusto prezzo».
Siamo alle porte della nuova programmazione comunitaria e sono in arrivo altre risorse dal Pnrr. Come utilizzare al meglio queste somme e far invertire la rotta all’agricoltura calabrese?
«Si è visto che nel corso di questi anni tra fondi comunitari, nazionali e regionali le risorse che sono arrivate in Calabria non sono state poche. Ma ognuna di queste risorse a seconda della provenienza ha avuto degli obiettivi anche divergenti. Il problema è che non tutte queste somme si sono concentrate verso un obiettivo chiaro. Quello che si dovrebbe fare è individuare una strategia per lo sviluppo calabrese che faccia da cornice per tutti i programmi a cui la Calabria dovrà far fronte nel prossimo periodo (Psr, Pnrr, ma anche i fondi regionali che non sono pochi). Ognuno di questi programmi dovrebbe tendere al raggiungimento degli obiettivi di cui la Calabria ha bisogno per intraprendere una strada di sviluppo. Ma fino ad oggi non ci siamo riusciti». (r.desanto@corrierecal.it)
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