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L’analisi

«Dal turismo dei rifiuti all’economia circolare»

Problema scottante, quello della gestione dei rifiuti urbani, su cui si bruciano le amministrazioni locali: crea forte disagio sociale e, non di rado, gravi tensioni. È un problema che, come vedre…

Pubblicato il: 29/11/2021 – 10:15
di Antonino Mazza Laboccetta*
«Dal turismo dei rifiuti all’economia circolare»

Problema scottante, quello della gestione dei rifiuti urbani, su cui si bruciano le amministrazioni locali: crea forte disagio sociale e, non di rado, gravi tensioni. È un problema che, come vedremo, non è di facile portata: richiede, infatti, alla classe politica visione strategica, impegno lungimirante, sapiente uso dei rifiuti come asset di sviluppo nell’ambito della c.d. economia circolare. Richiede, insomma, una gestione capace di garantire il rispetto del principio di autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti non pericolosi e il principio di prossimità nello smaltimento e nel recupero di quelli indifferenziati. Principi, questi, che presuppongono la realizzazione (ovvero il potenziamento) sul territorio regionale di impianti adeguati a garantire il soddisfacimento del fabbisogno e, insieme, la riduzione della circolazione dei rifiuti. Al tempo stesso, non può negarsi che la corretta gestione dei rifiuti presuppone pure un grado avanzato di coinvolgimento della società civile, assai spesso percorsa – è inutile nasconderselo – dalla sindrome Nimby (Not In My Back Yard: “non nel mio giardino”): si tratta, in altri termini, di fenomeni di opposizione, quando non di protesta attiva, delle comunità locali rispetto a progetti di opere pubbliche o di impianti di interesse generale – quali sono, tra gli altri, gli impianti per lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti -, visti dalla popolazione locale come minaccia all’ambiente, alla salute, alla sicurezza. E, tuttavia, anche su questo piano si misura la capacità degli amministratori di gestire con competenza il “dibattito pubblico” in modo che la progettazione delle opere e degli impianti di interesse generale garantisca, da un lato, gli standard di sicurezza più avanzati e, dall’altro, non cada sulla testa dei cittadini senza previamente avere attivato i meccanismi di partecipazione e coinvolgimento delle comunità, previsti dall’ordinamento. Com’è noto, il Codice dei contratti pubblici (art. 22) prevede il “dibattito pubblico” sui progetti di fattibilità relativi alle grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, in modo che gli esiti della consultazione dei portatori di interesse siano valutati in sede di progettazione definitiva. E, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 30 dicembre 2020, n. 627, è stata istituita la Commissione nazionale per il dibattito pubblico, successivamente modificata con decreto del Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili 7 maggio 2021, n. 204. La Commissione ha approvato la Raccomandazione n. 1, recante le Linee guida sul dibattito pubblico. L’obiettivo, tra gli altri, è quello di favorire il coinvolgimento della società civile nel processo decisionale diretto alla realizzazione delle opere di interesse pubblico, nella consapevolezza che le scelte partecipate sono quelle che riducono il conflitto sociale e il contenzioso. Non a caso il Pnrr, su questa linea, tende ad allargare il novero delle opere per le quali il dibattito pubblico è condizione preliminare.

Autosufficienza e prossimità nella gestione dei rifiuti

Fatta questa necessaria premessa, va subito detto che i rifiuti si distinguono in urbani e speciali. Sono rifiuti urbani quelli domestici (indifferenziati o da raccolta differenziata) e quelli provenienti da altra fonte ma assimilati per natura e composizione ai rifiuti domestici (per il dettaglio, esigenze di brevità impongono di rinviare all’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006 (c.d. Codice dell’ambiente). Sono rifiuti speciali quelli prodotti dalle attività economiche; alcuni di essi sono pericolosi, mentre altri non lo sono. La distinzione è importante: per i rifiuti urbani vale il principio di autosufficienza, che impone alla regione di effettuare previamente una seria analisi del fabbisogno alla quale va commisurata, secondo avveduti piani industriali, la realizzazione sul territorio regionale di impianti adeguati ad assicurare il soddisfacimento delle esigenze di smaltimento e di trattamento dei rifiuti. In sostanza, il principio di autosufficienza vuole evitare la circolazione dei rifiuti tra un territorio e l’altro ed i conseguenti – inevitabili – fenomeni di saturazione degli impianti. Vale il principio di prossimità, invece, per i rifiuti speciali: sempre nell’ottica di ridurne la circolazione e di imporne, quindi, il trattamento nei luoghi più vicini (“più prossimi”, per l’appunto) alla loro produzione, il principio sospinge il più delle volte verso soluzioni di mercato, che, in ogni caso, richiedono alle regioni un’attenta misurazione dei fabbisogni diretta ad incentivare la realizzazione di impianti adeguati. Improntato al principio di prossimità è anche il trattamento delle sezioni di raccolta differenziata destinate ad essere riciclate e recuperate. Il principio di autosufficienza, che, ai sensi dell’art. 182-bis, del d.lgs. 152 del 2006, impone il trattamento dei rifiuti nel territorio regionale e, più precisamente, nel perimetro dei c.d. Ambiti territoriali ottimali (Ato), si slabbra consentendo, in questo caso, la circolazione dei rifiuti sull’intero territorio nazionale, ma non fa venir meno il principio di prossimità. La conseguenza è che le regioni, comunque, sono tenute a “programmare” le attività dirette a misurare i fabbisogni regionali, ad effettuare una ricognizione degli impianti esistenti sul territorio e ad elaborare un piano strategico di politica industriale dei rifiuti secondo un approccio “integrato” (infra). Rifiuti che, come anticipato, costituiscono un asset di sviluppo nel modello di economia circolare, fondato sul recupero e sul riutilizzo dei beni consumati, in contrapposizione all’economia lineare – che sempre più si vorrebbe lasciare alle spalle – fondata, al contrario, sulla produzione del bene: consumato e (definitivamente) smaltito. La programmazione, cui le regioni sono tenute a norma dell’art. 199 del d.lgs. 152 del 2006, prevede la redazione del Piano regionale di gestione dei rifiuti (Prgr), puntualmente e dettagliatamente declinato dal legislatore. Tuttavia, fatta eccezione per alcuni modelli virtuosi, i Piani regionali non danno bella mostra di sé, spesso risolvendosi in vuote declamazioni, privi come sono di effettiva consistenza sul piano del disegno industriale. Non a caso il governo Draghi ha inserito nel Pnrr il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, mettendo in luce l’insufficiente capacità delle regioni di pianificarne il trattamento, di colmare le “lacune impiantistiche” e di elaborare adeguati modelli di governance. Il Programma nazionale, introdotto dal d.lgs. n. 116 del 2020 (attuazione Direttiva [UE] 2018/851 relativa ai rifiuti) – che, all’art. 2, comma 1, ha inserito nel d.lgs. 152 del 2006 l’art. 198-bis) – si propone, infatti, di implementare le politiche di pianificazione regionale dei rifiuti, assicurandone il coordinamento nell’ambito di una visione organica finalizzata a “legare” le regioni a precise linee strategiche di indirizzo.

Rigenerazione, riuso e necessità di un approccio integrato nella gestione dei rifiuti

L’incapacità delle regioni – in non pochi casi, frutto di una precisa volontà politica – di analizzare seriamente e quantificare il fabbisogno e, conseguentemente, di colmare i deficit impiantistici produce il fenomeno del “turismo dei rifiuti”, che, nelle situazioni di emergenza, percorre il più delle volte l’asse sud-nord, imboccando, non di rado, strade estere. Fenomeno, questo, che è costoso tanto sul piano economico quanto su quello ambientale. Per di più, produce un depauperamento delle regioni in termini di risorse spendibili sul piano del recupero energetico dei rifiuti secondo l’approccio proprio dell’economia circolare. Politiche, queste, che in modo miope e grave disattendono il disegno strategico nel quale l’Europa vorrebbe muoversi: il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, di cui abbiamo detto, si inserisce, infatti, nel contesto di una politica europea orientata ad incentivare il riciclo dei rifiuti. Va in questa direzione il Piano d’azione sull’economia circolare per un’Europa più pulita e competitiva, adottato dalla Commissione europea nel marzo del 2020 (Green Deal europeo), che, tra gli altri obiettivi, si propone di mettere il concetto di “circolarità” al centro della gestione regionale e comunale dei rifiuti, incentivando in modo forte il loro riutilizzo attraverso ben precise politiche orientate a rendere “sostenibili” i prodotti (v., ad esempio, gli imballaggi in plastica progettati in funzione del loro riutilizzo). Certo, il passaggio ai nuovi processi produttivi – va detto – non sarà facile, implicando costi di adattamento che vanno ammortizzati nel tempo. Ma la strada è segnata, ed è quella di progettare il prodotto nella prospettiva della rigenerazione e del riuso. Dunque, se questa è la prospettiva, non rispondono certo all’esigenza di affrontare in maniera efficace il problema della gestione dei rifiuti i Piani regionali redatti prescindendo da una seria analisi del fabbisogno e da un’attenta elaborazione strategica di progetti finalizzati alla realizzazione di impianti per il trattamento dei rifiuti. Attività, queste, che devono rigorosamente declinarsi nei modi stabiliti dall’agenda europea e dalla normativa nazionale attuativa e fondarsi, quindi, su precisi indicatori scientifico-tecnologici in grado di quantificare le carenze impiantistiche sia in termini di capacità produttiva sia in termini logistici, senza trascurare la qualità tipologica degli impianti legata, da un lato, all’esigenza di soddisfare i criteri ambientali stabiliti dall’Unione europea e, dall’altro, all’esigenza di rispondere adeguatamente alle politiche dirette a implementare il riuso dei rifiuti. In questa direzione, sono assolutamente inefficaci e di corto respiro le soluzioni che, fondandosi su interventi estemporanei, sul mero affidamento della raccolta differenziata e sull’organizzazione del “singolo” servizio/impianto, non puntano alla gestione complessiva dei rifiuti intesa come “sistema integrato”. Un sistema cioè che, nella prospettiva dell’economia circolare verso la quale andiamo, mira non solo a ridurre la movimentazione dei rifiuti, ma, come abbiamo visto, a concepire in modo del tutto nuovo l’intero ciclo di vita del prodotto, pensato fin dal progettazione per essere in tutto o in parte rigenerato, riusato e, quindi, reimmesso nel circuito economico-produttivo. Non è facile. È un’inversione di marcia che, come dicevamo all’inizio, richiede alla politica, alla società civile e anche al sistema economico-produttivo visione strategica e lungimiranza. Ma è questa la direzione. Certo, è un viaggio lungo, ma, per dirla con un vecchio adagio cinese, anche il cammino più lungo comincia con il primo passo. E il primo passo è quello di impostare in modo organico e strategico l’emergenza-rifiuti, socialmente esplosiva e giustamente intollerabile, per farne opportunità di sviluppo».

*Università Mediterranea

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