REGGIO CALABRIA Una vera e propria zavorra che pesa sulle possibilità di competere alla pari con altri territori. Un divario di competenze che interessa una fetta importante di lavoratori coinvolti nei processi produttivi del Paese e che diviene ancor più allarmante nel Mezzogiorno e in Calabria in particolare. Una sfida, quella della riqualificazione del personale all’interno delle aziende, che sembra non essere colta appieno dalle imprese. Nonostante sia acclarato che la formazione aziendale costituisca una delle leve fondamentali per una corretta strategia di crescita delle imprese. Imposta da un mondo in continua trasformazione che dovrebbe dettare i tempi anche alle aziende, per restare al passo con la competizione scatenata da un mercato globale.
Ed invece dai dati dell’Istat emerge che meno di sette imprese su dieci (il 68,9%) ha svolto attività di formazione del personale e se la quota supera il 90% per le grandi imprese, per quelle con meno di 50 dipendenti la soglia scende al 66,1%.
Mentre per Unioncamere, che attraverso il sistema Informatico Excelsior ha il polso della situazione, soltanto il 44,4% delle imprese, nel corso dell’anno preso in esame (il 2020), ha svolto attività di formazione interna. Con discrepanze sensibili tra le varie aree del Paese. Con un Nord est che segnala oltre la metà delle aziende attive in processi di formazione del personale a differenza del Sud dove la soglia si ferma al 39,1%.
Un quadro negativo che diviene ancor più disarmante se l’analisi dei dati si restringe non alla mera attività di formazione ma a quante aziende hanno effettivamente organizzato corsi per qualificare i dipendenti.
In questo caso, consultando i dati elaborati da Unioncamere su sistema Excelsior, emerge che in Italia la quota di imprese che ha organizzato corsi di formazione scende al 19,3%. Anche qui con differenze territoriali rilevanti. Se nel Nord Est la percentuale di aziende sale al 24,2%, al Sud scende viceversa al 14,7%.
Più fosca la situazione appare se si leggono i dati sul numero effettivo di dipendenti, che hanno svolto nell’anno formazione. Stando alle elaborazioni del rapporto di Unioncamere, emerge che neppure due lavoratori su dieci hanno partecipato a corsi effettuati dalla propria impresa. In media in Italia sono stati il 17,2%, al Sud il 14,3.
Eppure sono le stesse aziende che denunciano un gap di competenze tra i propri dipendenti. In questo senso dalle rilevazioni dell’Istat emerge che, ben per un terzo delle imprese, una parte dei propri addetti non aveva le competenze adeguate a svolgere la propria attività rispetto allo standard richiesto. Un deficit di competenze che, sempre stando ai dati Istat, interessa due terzi del personale che opera nelle aziende di grandi dimensioni.
Limiti che in Calabria risultano ancor più marcati, rischiando così di incidere maggiormente sulle possibilità di riscatto dell’intero sistema produttivo regionale. Se non si correrà rapidamente ai rimedi.
Leggendo nel dettaglio i dati della ricercatrice del servizio “Statistiche strutturali sulle imprese, istituzioni pubbliche e non profit” dell’Istat, Manuela Nicosia, elaborati in esclusiva per il Corriere della Calabria, emerge la distanza che sussiste tra la Calabria ed il resto del Paese in materia di formazione del personale. A partire dalla percentuale di imprese che hanno svolto attività formativa. Ebbene la Calabria è penultima in Italia con un tasso del 54,9%. Distante anni luce da altre aree come quella di Bolzano o il Trentino Alto Adige dove rispettivamente l’85,1% e l’82,8% delle aziende si è occupata di formare i propri dipendenti.
Nelle elaborazioni effettuate della ricercatrice Istat, quella formazione professionale svolta in Calabria si è realizzata per il 46,5% attraverso corsi e per il 40,9% in attività formative diverse dai corsi, come il training on the job, la partecipazione a convegni e seminari e l’autoapprendimento mediante formazione a distanza.
I dati indicano che la spesa complessiva sostenuta dalle imprese calabresi in un anno per sostenere corsi di formazione risulta, in termini nominali, di 31,092 milioni di euro.
Numeri ampiamenti inferiori alla media nazionale. Nonostante in Calabria il divario di competenze del proprio personale riconosciuto dagli stessi imprenditori.
A questo proposito il 26,5% delle imprese calabresi dichiara che, nel 2020, una parte dei propri addetti non aveva le competenze adeguate allo svolgimento del proprio lavoro secondo il livello richiesto (a livello nazionale si tratta del 36,6%).
Tra le competenze da migliorare, segnalate all’Istat, quelle informatiche di base emergono per la loro rilevanza (29,5% contro il 21,7% della media nazionale) insieme alle competenze amministrative e di contabilità aziendale (29,2% contro il 6,6% della media nazionale). A queste si affiancano le competenze trasversali, come la capacità di contribuire al lavoro di gruppo (32,8%) e l’abilità nell’autogestire la propria attività lavorativa (22,0%). Oltre alle competenze manageriali e gestionali (20,9%) le soft skills assumono dunque una valenza strategica per affrontare cambiamenti repentini e inaspettati, come quelli che l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha portato nel contesto produttivo, e non solo.
Ai dati dell’Istat si sommano – come riscontro – quelli di Unioncamere. Stando al report del Sistema Excelsior, infatti, la Calabria risulta tra le ultime regioni in Italia per numero di imprese che effettivamente hanno fatto formazione ai propri dipendenti (15,9%) contro ad esempio il Friuli Venezia Giulia (26,5%) e il Trentino Alto Adige (26,2%). Meglio hanno fatto le imprese più grandi e dunque più strutturate. Le aziende calabresi con più di 50 dipendenti, infatti, che hanno svolto corsi di formazione sono state pari al 39,8% ed a brillare, soprattutto in questo segmento, quelle del Reggino (45,1%). Al di sopra della media nazionale. Ma solo il 14,6% dei dipendenti calabresi ha svolto realmente attività di formazione. A dimostrazione di quanta strada si debba ancora compiere per colmare quei deficit di competenze denunciati dalle stesse aziende. E che rappresentano per questo veri ostacoli per competere ad armi pari, con altre aree del Paese.
È la struttura del sistema imprenditoriale calabrese a costituire il principale limite alla capacità di investire in formazione. Micro-imprese, sotto capitalizzate spingono per ridurre i costi d’impresa. Senza però considerare che così facendo rischiano di non crescere mai. Una caratteristica quella individuata da Domenico Marino, professore ordinario di Politica economica all’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, che finisce per assomigliare ad una sorta di «sindrome di Peter Pan». La paura di crescere e di vedere incrementare i costi, che però si ritorce contro il sistema. Da qui l’invito alle imprese ad attuare una forma di rivoluzione culturale tesa ad investire maggiormente nel capitale umano.
Da cosa dipende il maggiore gap di formazione tra gli addetti nelle imprese del Mezzogiorno e della Calabria in particolare, rispetto al resto del Paese?
«Le competenze costituiscono un concetto multidimensionale che attraversa diversi ambiti, tra cui l’istruzione, le istituzioni del lavoro, le politiche occupazionali, gli investimenti in ricerca e sviluppo, il coordinamento con i governi regionali e locali. Inoltre, l’interrelazione tra questi fattori è spesso descritta come complementare, cioè i fattori agiscono insieme e si rafforzano a vicenda. Nel Mezzogiorno e in Calabria questa multidimensionalità e queste interrelazioni sono state spesso assenti. La formazione professionale è servita più per pagare i formatori che per formare le nuove leve del mercato del lavoro. Per uscire da questo stallo le regioni meridionali e la Calabria, in particolare, devono anche mettere in atto meccanismi specifici che implementino le complementarità e promuovano l’integrazione tra diverse politiche. Sarebbe importante definire l’interazione tra le politiche e i meccanismi di trasmissione, tra queste ed i risultati delle competenze. Cosa che nessuno ha mai pensato di fare in Calabria».
Perché nonostante questa differenza, ci sono meno imprese in Calabria che formano periodicamente i propri dipendenti?
«La dimensione aziendale bassa, la sottocapitalizzazione, la scarsa apertura ai mercati, sia nel senso di ridotta competizione che nel senso di limitatezza dei mercati di sbocco e i limiti di carattere organizzativo, sono alcuni degli elementi che spiegano le difficoltà delle imprese. Il venire meno nel tempo dell’industria esterna ha contribuito a indebolire un settore dell’economia nel quale le risorse locali, sia finanziarie che umane, appaiono sostanzialmente asfittiche. Casi di eccellenza sono presenti, ma non sono sicuramente frequenti. Un sistema produttivo di questo tipo è un sistema che mira alla sopravvivenza, a riuscire a superare il mese senza grossi shock. La formazione è percepita come un obiettivo di lungo periodo e sicuramente non prioritario rispetto alle impellenti urgenze del breve periodo. La piccola, spesso micro-dimensione delle imprese, che è un altro elemento di debolezza di questo quadro spiega anche il livello subottimale di formazione delle imprese calabresi. Una micro-dimensione che sicuramente lascia intravedere il tentativo di una miope riduzione dei costi del lavoro per recuperare quella competitività che invece andrebbe cercata con altri strumenti e, in particolare, investendo in conoscenza, capitale umano e innovazione. Così il sistema produttivo calabrese appare come pervaso dalla paura di crescere. Ha paura di confrontarsi con il mercato in una perversa sindrome da “Peter Pan” che impedisce di sfruttare i punti di forza che pure esistono. Una delle spinte che portano le imprese a investire in formazione è l’ambizione a crescere, a diventare più grandi e ad essere più competitivi. Ambizione che è quasi assente nelle microimprese. Infine, non può non far riflettere la presenza di un numero significativo di imprese con zero dipendenti. Un’impresa di questo tipo dovrebbe essere una eccezione, mentre in Calabria sembra essere una tipologia abbastanza frequente. Dietro questo fenomeno con ogni probabilità si nasconde il ricorso a forme di lavoro irregolare e/o informale. Ed è improbabile che i lavoratori irregolari seguiranno corsi di formazione»
Quanto influisce il livello di preparazione degli addetti ad accrescere il grado di competitività delle imprese?
«Nella teoria economica si fa spesso riferimento a due tipologie di lavoratori: gli High Skilled Workers e i Low Paid Workers. Gli appartenenti al primo gruppo costituiscono la parte più dinamica del mercato del lavoro. Perdere con l’emigrazione individui appartenenti a questo gruppo significa perdere capitale umano e quindi competitività. È una migrazione caratteristica dei paesi in via di sviluppo che sono tipicamente esportatori di cervelli. Le politiche del lavoro in Calabria non sono mai state attente a fermare questo flusso di lavoratori qualificati. Ma, cosa che è più grave, questo problema non è stato nemmeno avvertito. Il secondo gruppo è il segmento dei Low Paid Workers. Si tratta, in questo caso, di soggetti a bassissima qualificazione e specializzazione che partono spinti dal bisogno di trovare un lavoro per sopravvivere. Ma sono gli High Skilled Workers i motori del cambiamento e dell’innovazione e della competitività delle imprese. Sono un capitale da curare e sul quale bisogna investire in formazione per far aumentare la competitività complessiva dell’impresa. Ma spesso le imprese calabresi preferiscono, per ridurre i costi, non puntare su questi soggetti, privilegiando i Low Paid Workers, perdendo in capacità competitiva e innovativa».
Secondo lei cosa è possibile mettere in campo per migliorare la formazione del personale che lavora nelle aziende calabresi?
«Occorre avviare una forma di rivoluzione culturale. Una rivoluzione che passa attraverso il cambio della mentalità imprenditoriale diffusa. Facendo capire che la formazione è la base imprescindibile per l’aumento della capacità competitiva dell’impresa. E poi occorre considerare l’istruzione e l’orientamento come un unico sistema lungo l’intera filiera della transizione al lavoro. Così come vi è la necessità di elaborare piani pluriennali che comprendano: obiettivi, personale, strutture, servizi e risorse finanziarie per lo sviluppo e il funzionamento dell’intero sistema e dei suoi sottosistemi. Ed inoltre accrescere gli investimenti sulla formazione, con la consapevolezza che l’innovazione e la competitività di lungo periodo di un’impresa dipendono soprattutto dalla qualità del suo capitale umano».
Ed il mondo delle università in che modo può influire a qualificare quanti lavorano nelle aziende calabresi?
«L’università può svolgere un ruolo importante, in primo luogo, modificando gli attuali curricula per le varie tipologie di laurea rendendoli più vicini e più adatti ai bisogni delle imprese. La velocità dell’innovazione tecnologica e della domanda delle imprese è spesso superiore alla capacità di adattamento dell’istruzione universitaria. Il sistema continua ad essere troppo concentrato su lezioni ed esami, formando studenti spesso non in grado di entrare proficuamente nel mercato del lavoro. Questo danneggia sia le imprese del territorio, che non trovano lavoratori che soddisfino le loro esigenze, sia la stessa università che rimane troppo autoreferenziale. Occorre, quindi, creare un collegamento sistematico tra istruzione, ricerca e mercato del lavoro, sia a livello centrale che locale. Un collegamento che deve necessariamente coinvolgere tutti gli attori, con l’obiettivo condiviso di formare il capitale umano per consentire al sistema produttivo calabrese di fare un salto in avanti in termini di sviluppo e di competitività». (r.desanto@corrierecal.it)
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