LAMEZIA TERME «Chiedo scusa al Tribunale per la mia lunga assenza ma che sia chiaro non ero latitante, ero innocente». Con queste parole ieri sera Pasquale Bonavota, 49 anni, ha reso spontanee dichiarazioni al termine dell’udienza del processo Rinascita Scott che si trova ora in fase di requisitoria. Per l’occasione, a tarda ora è stato raggiunto in aula bunker, con la quale era videocollegato, dal proprio avvocato, Tiziana Barillaro.
La «lunga assenza» alla quale si riferisce Bonavota riguarda la latitanza che gli ha permesso di sottrarsi all’arresto nell’operazione Rinascita il 19 dicembre 2019. È accusato di associazione mafiosa, considerato il capo “Società” della cosca di Sant’Onofrio. Ma lui respinge ogni accusa e dipinge tutt’altro personaggio.
Lo dice più volte: «Non ero latitante, ero innocente».
Racconta che la sua latitanza inizia perché il 16 dicembre 2016 quando viene fermato e tratto in arresto dalla Dda di Catanzaro per essere il mandante di un omicidio avvenuto nel 2004. «Il mio principale accusatore – dice Bonavota – è Andrea Mantella. Rammento che la sua collaborazione avviene nel maggio 2016 e già a giugno era di dominio pubblico in quanto ogni giornale ne riferiva la notizia complessiva di verbali di dichiarazioni». Pasquale Bonavota racconta che nonostante fosse a conoscenza della collaborazione di Mantella non la temeva, non è fuggito temendo un arresto «in quanto avevo la coscienza a posto». «Prova ne è – aggiunge – che sono stato tratto in arresto nella mia abitazione». Il 16 dicembre 2016 è stato fermato e dopo qualche giorno viene interrogato per la convalida dal gip di Roma, visto che il 49enne è stato arrestato in quella città. Bonavota, con dichiarazioni spontanee, dice, «grido con forza la mia innocenza». Il gip lo scarcera «con una motivazione forte: dicendo chiaramente che non esiste nulla che giustificava un mio arresto». «Dopo pochi giorni la procura di Catanzaro richiede il mio arresto nuovamente, questa volta direttamente al gip di Catanzaro. Stranamente il gip sulla mia persona si riserva, e tale notizia veniva riferita da ogni organo di stampa».
Nonostante due accuse di omicidio, Bonavota dice di non avere mai pensato di fuggire o nascondersi. «Tanto è vero che sei mesi dopo, il 5 giugno 2017, il gip di Catanzaro scioglie la riserva e ordina il mio arresto per un solo omicidio». Il Riesame rigetta il ricorso dei suoi legali. Bonavota chiede di essere giudicato col rito abbreviato e il pm chiede la condanna all’ergastolo per tutti e due gli omicidi.
Nel frattempo la Cassazione annulla con la rinvio la sua misura cautelare e qualche tempo dopo il Riesame lo rende un «uomo libero». Il 23 novembre 2018 sopraggiunge la sentenza del gup.
«Inaspettatamente, da uomo libero, vengo condannato alla pena dell’ergastolo. La mia vita finisce in quel momento. Non ho accettato questa condanna che ritenevo profondamente ingiusta. Ero innocente e non riuscivo più a reagire all’ennesima ingiustizia giudiziaria». «L’ennesima sofferenza e l’ennesimo dolore stavolta hanno preso il sopravvento sulla mia persona», dice l’uomo che si definiva «un combattente».
«Non ero più io, ho finito di ragionare e quando cercavo una soluzione non ne trovavo una se non un’unica scelta, la scelta di morire: avevo deciso di suicidarmi e mettere fine ad ogni sofferenza». Ma a metter in pratica quel proposito non ci ha provato mai «nemmeno per un istante». «Suicidarsi non è una cosa facile, ci vuole un coraggio impressionante che io non ho mai avuto».
«Nel frattempo sapevo benissimo che a momenti sarei stato arrestato vista la pena dell’ergastolo». Il giorno in cui è stata emessa la sentenza, il 23 novembre 2018, «era un venerdì». Bonavota racconta che per tutto il fine settimana ha atteso in casa che andassero ad arrestarlo, senza pensare di darsi alla latitanza.
«Lunedì verso le 17 esco di casa. Mentre cammino mi accorgo di essere seguito da cinque/sei carabinieri in borghese. Mi rendo subito conto che mi stavano arrestando».
Bonavota non viene fermato ma nota che quelle persone sono costantemente dietro di lui.
«La mia mente – dice l’imputato – mi mette davanti a due possibilità: decidere di vivere o morire. Ho scelto di morire. Non avevo avuto il coraggio di mettere in pratica il suicidio. Allora ho deciso di morire per mano di altri. Mi sono detto, quale migliore possibilità che quella di provare a sfuggire alla cattura e mettere i carabinieri nella condizione di uccidermi. Ho iniziato a fuggire». Ma non accade nulla di quello che Bonavota aveva immaginato, nessuno spara in aria per fermarlo, nessuno gli spara contro. «Corro, corro così tanto come non avevo fatto in vita mia. Ma nessuno spara e nessuno mi segue. Mi sono trovato latitante senza averlo scelto. Giro per la città di Genova, lo faccio per tutta la notte, non sapendo dove andare. La mattina entro nella prima chiesa che trovo aperta. Piangevo e piangendo mi rivolgo a Gesù, come mai avevo fatto con lui. Gli parlo come se fosse un mio compagno di banco a scuola. Mi incavolo pesantemente e con forza gli dico: “Ho sempre creduto in te, ti ho amato. Ho sbagliato ma da tantissimo anni ho affidato la mia vita a te”». Bonavota dice che si sente abbandonato e non lo accetta.
Racconta di essersi rifugiato in Gesù e «lui mi ha dato la forza di reagire, di combattere e di andare avanti».
«Così ho deciso di difendermi dall’ennesima ingiustizia, di cercare tutte quelle prove di cui avevo bisogno per dimostrare la mia innocenza». Ma più di ogni altra cosa Bonavota cerca le prove per dimostrare la «falsità del mio principale accusatore, Andrea Mantella». «Per fare tutto questo non potevo andare in carcere. Per me non è stato facile. Ho dormito per circa un mese come un barbone». In questa situazione l’uomo di Sant’Onofrio racconta di avere trovato un’umanità «indescrivibile» e non vede l’ora di «poterli abbracciare uno ad uno».
In sostanza Bonavota racconta che, nel cercare giustizia per se stesso, non ha voluto affidarsi «a coloro che hanno contribuito a condannarmi ingiustamente». Dice di essere consapevole di avere sbagliato a non affidarsi alle sedi competenti «e di questo chiedo ancora una volta scusa, ma su questo aspetto non ho nessun rimpianto».
«Sono certo che se non avessi fatto così non sarei più in vita. Voi giustamente non potrete mai capirmi. Come potete giustificare una persona che si sottrae alla giustizia?». Bonavota invita chi lo ascolta a ficcarsi per un momento nella sua pelle e provare il dolore che ha provato lui, quel «sentirsi vivo solo perché ancora ero in piedi».
Dice che comunque doveva delle scuse, anche a coloro che gli hanno sempre voluto bene e ha deciso di farlo così «mettendo a nudo le mie debolezze e le mie fragilità».
«Il 17 novembre 2021 la Corte d’Assise d’appello di Catanzaro mi assolve per tutti e due gli omicidi, per non aver commesso il fatto. Sentenza divenuta definitiva perché non appellata». Nonostante la sentenza, però, le motivazioni non soddisfano Bonavota perché non mettono «nero su bianco che Mantella ha detto il falso contro la mia persona». Secondo l’esperienza di Bonavota, dice, questo non è avvenuto non perché non vi fossero gli elementi ma perché questo avrebbe minato la credibilità di Mantella. La Corte d’Appello lo avrebbe poi «ferito profondamente» scrivendo che Bonavota non era stato mai accusato da Andrea Mantella di essere il mandante degli omicidi e che le prove per una sua condanna erano generiche. Allora l’imputato si interroga: «Era giustificato il mio arresto per gli omicidi? La condanna all’ergastolo? O qualcuno poteva verificare meglio il tutto?».
Mentre è latitante, Pasquale Bonavota viene attinto dall’ordinanza di custodia cautelare per Rinascita Scott e anche per un altro omicidio, «sempre accusato da Andrea Mantella». Il 20 luglio 2022, il gup di Catanzaro lo assolve «nonostante l’ennesima richiesta di ergastolo». Anche in questo caso la sentenza diviene definitiva perché non viene appellata. «Ancora una volta vi dico che io non ero latitante, ero innocente», è la filosofia di Bonavota.
Il 49enne racconta che aspettava la sentenza di Rinascita nella speranza di essere assolto e che «non ero pronto ad entrare in carcere per l’ennesimo accusa che ritengo pesantemente ingiusta».
Dice di avere studiato a fondo il processo e di conoscere le accuse che gli rivolgono i collaboratori di giustizia. «Sono accusato da circa 13/14 collaboratori, tutti riferiscono contro la mia persona per sentito dire e dicono che io sia il capo di Sant’Onofrio nonostante viva a Roma». È convinto che i collaboratori parlino di lui non perché qualcuno abbia loro riferito sulla sua persona ma «perché hanno letto il tutto nei vari giornali. Su questo aspetto sfido chiunque». Sfida a trovare qualcosa detto dai collaboratori che non fosse già di dominio pubblico.
«Io vi assicuro che non faccio parte di nessuna associazione e se un giorno ci saranno collaboratori veri e, soprattutto, sinceri e che non si allineano a tutti i fatti che hanno raccontato i vari quotidiani, credo che quel giorno qualcuno dovrà darmi delle scuse». (continua)
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