A livello congiunturale l’OCSE ci dice che l’economia italiana nel 2023 crescerà a tassi superiori a quelli delle principali economie europee (+1,1% del Pil, meglio di Germania e Francia) con un Mezzogiorno che riesce a tenere il passo con il resto del Paese. E le previsioni per il 2024 si attestano su di un buon (+0,9%), con uno scarto Sud-Centro Nord che rimarrà contenuto rispetto alle passate fasi di ripresa ciclica, grazie soprattutto all’impatto espansivo del PNRR, che compensa l’indebolimento di consumi e investimenti privati.
Nel 2022, infatti, a fronte di un +5% nella crescita dei consumi totali delle famiglie nel Mezzogiorno, quelli del Centro-Nord hanno fatto registrare un +5,7%, mentre dal lato degli investimenti, quelli in macchine e attrezzature hanno segnato un +4,6% al Sud, rispetto al +7,5% del Centro-Nord, anche se il rapporto si inverte rispetto agli investimenti in costruzioni (+13,1% contro +11%).
Congiuntura complessivamente positiva trainata principalmente dai servizi (filiera turistica in particolare) e dall’edilizia (settore beneficiario delle agevolazioni 110% e del PNRR) che conferma, anche se in parte ridimensionato, il trend del biennio 2021-22, in cui il Mezzogiorno è cresciuto cumulativamente del 10,7%, quasi come il Centro-Nord (+11%) e più del Nord-Ovest (+9,9%). Una crescita a cui il settore dei servizi, in particolare, ha contribuito per il 71% nel Mezzogiorno e per il 64% nel Centro-Nord
Un Sud, quindi, che è riuscito ad agganciare la ripresa nazionale anche nel 2022, più che compensando le perdite del 2020, anche se il PIL del Mezzogiorno rimane di 7 punti percentuali inferiore rispetto al livello del 2008.
Purtroppo, le evidenti criticità strutturali, in particolare quelle presenti nel mercato del lavoro con i suoi paradossi (uno su tutti bassi salari e alto costo del lavoro), potrebbero rallentare la crescita in Italia e contribuire all’aumento degli squilibri Nord-Sud nei prossimi anni.
Le principali criticità del mercato del lavoro italiano si potrebbero sintetizzare in cinque punti:
1. La produttività generale (lavoro e capitale) non cresce rispetto ai Paesi europei, anche se “cenni” di miglioramento arrivano dalla produttività del lavoro nell’ultimo decennio. In generale, secondo il Rapporto “Misure di produttività” dell’Istat (2022), dal 1995 al 2021 la produttività totale dei fattori (con le due componenti lavoro e capitale) in Italia è rimasta perfettamente inalterata, restituendo la fotografia di un Paese che, tra piccole variazioni positive o negative di anno in anno, cresce troppo poco e a ritmi ancora troppo lenti rispetto ai vicini europei. Ma, sempre secondo l’Istat, in Italia la produttività del lavoro nel periodo 2014-2021 cresce di più di quella del capitale, di Francia e Spagna, ma meno della metà di quella della Germania.
2. Il paradosso del mercato del lavoro italiano: stagnazione trentennale dei salari dei lavoratori da un lato e alto costo del lavoro per le imprese dall’altro, con una progressiva riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, in particolare in un momento di ripresa dell’inflazione, che nel 2022 è cresciuta di più al Sud (+8,7% rispetto al +7,9% nel Centro-Nord), con previsioni di rientro verso valori prossimi al 2% nel 2025, ma ancora segnato da rincari relativamente più elevati nel Mezzogiorno. Nel 2021 il numero di lavoratori complessivi nell’anno è risultato pari a circa 25,8milioni (22,3milioni nel settore privato e 3,5milioni nel pubblico). Da questo punto di vista, tra il gennaio 2021 e il gennaio 2023 il Sud è cresciuto più del Nord (+7,7% contro, +6,1%) grazie al traino delle costruzioni, dei servizi (turismo e servizi professionali) e della PA e torna a crescere al Sud anche il lavoro stabile (+9% a tempo indeterminato). Tuttavia, l’Italia è ultima in Europa per aumento dei salari confermando un ritardo che viene da lontano: tra il 1990 e il 2020 i salari in Italia sono diminuiti del 2,9% (Fonte OCSE), ultimo Paese in Europa contro un aumento del 33% in Germania, il 31,1% della Francia e il 6,2% della Spagna (penultimo Paese), primi in classifica i tre Paesi Baltici con incrementi superiori al 200% (partivano comunque da livelli molto bassi). In questo scenario europeo, tra il 2008-2022, le retribuzioni si riducono di 3 punti percentuali al centro-nord e 12 punti percentuali al Sud, dove il potere d’acquisto dei dipendenti crolla dell’8,4% rispetto al Pre-Covid.
3. Una importante presenza di contratti a tempo determinato e precarietà, in particolare al Sud dove il peso della componente del lavoro a termine rimane a livelli patologici: oltre il 75% dei contratti part-time sono «involontari»; il 22,9% di occupati a termine sul totale dipendenti (14,7% nel Centro-Nord); quasi 1 lavoratore a termine su 4 al Sud è occupato a termine da più di 5 anni, il doppio rispetto al Centro-Nord. E non solo. Secondo SVIMEZ, i lavoratori sotto i 9 € lordi (comprensivi di 13ma e 14ma a seconda dei contratti) sono il 17,2% del totale dei lavoratori dipendenti, regolati da 63 contratti, di cui 1 milione nel Mezzogiorno (pari al 25,1% degli occupati dipendenti dell’area) e 2 milioni nelle regioni del Centro-Nord (15,9% degli occupati dipendenti).
4. La “fuga dei cervelli” da Sud a Nord, in particolare di profili STEM, con un Flusso migratorio Sud-Nord annuo invariato (circa 100.000) ma caratterizzato da un forte mutamento nella composizione qualitativa: tra il 2001-2021 i migranti laureati sono triplicati (9,4% nel 2001 vs il 34,2% nel 2021). Nel 2022, la percentuale di migranti laureati è la più alta nella storia del Mezzogiorno e nel periodo 2001-2021 il saldo migratorio netto di questa parte del Paese a favore del Centro-Nord è di circa 300.000 laureati. Tra questi, circa 130.000 sono quelli con elevate competenze in discipline STEM, circa 1/3 dell’investimento meridionale in formazione delle competenze scientifiche e tecnologiche.
5. Infine, difficoltà delle imprese a trovare manodopera (aspetto quantitativo) e profili professionali tecnici (aspetto qualitativo). Secondo i dati del Progetto Excelsior di Unioncamere-Anpal sono 504mila assunzioni previste dalle imprese nel 2023: +46mila rispetto a un anno fa, ma 230mila le assunzioni di difficile reperimento. Sale al 45,6% la difficoltà di reperimento (+7 punti percentuali rispetto a un anno fa), che raggiunge il 66% per le figure dirigenziali e sfiora il 62% per gli operai specializzati.
*vicepresidente nazionale Unioncamere
x
x