COSENZA «Mio padre è il primo pensiero appena sveglio, oggi continuo l’attività che aveva avviato insieme a mia madre. Le sue foto sono appese nel mio ufficio, lui è sempre con me». La voce è strozzata dall’emozione del ricordo. Pierluigi Ferrami parla di suo padre, Lucio Ferrami, imprenditore ucciso dalla ‘ndrangheta perché aveva osato dire no alle richieste di pizzo avanzate dagli uomini del clan Muto di Cetraro. Un affronto pagato con il sangue di un innocente, di un uomo che amava la Calabria anche se originario di Casalbuttano (in provincia di Cremona). La sua storia è al centro della nuova puntata di “Calabria dell’altro Mondo“, in onda ogni martedi su L’altro Corriere Tv (Canale 75).
«Conservo pochi e preziosi ricordi perché quando è morto mio padre avevo solo 9 anni: passavamo delle belle giornate nella nostra casa in collina, giocavamo insieme, la sera trascorrevamo del tempo davanti al camino e poi al mare, con il canotto». Pierluigi Ferrami apre il cassetto dei ricordi e con il sorriso riporta alla mente quei momenti felici vissuti accanto a suo padre. «Appena scendeva in Calabria, passata la Valle del Noce, gli si apriva un panorama dominato dal mare e lui diceva che gli si apriva il cuore», racconta ai nostri microfoni Franca Ferrami, sorella di Lucio. La Calabria per Ferrami è anche meta di un incontro, quello con sua moglie, che cambierà la sua vita. Durante un viaggio di lavoro, conosce a Guardia Piemontese Maria Avolio.
Insieme fonderanno la “Ferrami Ceramiche”, azienda di vendita al dettaglio di materiale da costruzione. Il mercato risponde bene, l’azienda riesce in poco tempo ad occupare una fetta importante nelle vendite. L’intuizione imprenditoriale stuzzica l’appetito e l’interesse della criminalità locale che inizia a minacciare la coppia con insistenti richieste di estorsione. «Non è abituato a sopportare un’ingerenza del genere. e quando ne parla con la moglie, per nulla spaventato, denuncia il tentativo di estorsione che viene commesso ai suoi danni», ricorda il giornalista e scrittore Arcangelo Badolati. «Quando parla con la moglie, le chiede ma perché i calabresi accettano tutto questo? Perché nessuno si ribella? Perché consentite a qualcuno di fare tanto male alla vostra terra? Ecco questo era Lucio Ferrami».
Quel giovane venuto dal nord disconosce le regole del crimine calabrese, ignora la ferocia dei malandrini della costa tirrenica cosentina. «L’omicidio Ferrami matura in un contesto complesso, nel quale la mafia dell’Alto Tirreno sta mettendo radici in tutti i settori, dal commercio del pesce agli abusi edilizi fino al controllo del territorio attraverso l’imposizione delle tangenti agli imprenditori piccoli e grandi.
È ‘ndrangheta che è già forte e che vive questa fase di espansione in una provincia insanguinata da una guerra che ha interessato il capoluogo. E’ la guerra scoppiata dopo l’omicidio di Luigi Palermo detto “U Zorru” (QUI LA NOSTRA INCHIESTA) e che si è propagata lungo la fascia tirrenica», dice Arcangelo Badolati. Ecco perché il rifiuto di Ferrami è un atto di straordinaria potenza in una terra spesso segnata dall’omertà, dai rumorosi silenzi e dalla rassegnazione di chi cede alla paura di possibili e crudeli ritorsioni.
Nel Cetrarese vi è l’affermazione, in quegli anni, di Franco Muto alias “il Re del pesce”. Gli amici consigliano a Ferrami di non denunciare. «Dissero che nessuno faceva questo – sottolinea Pierluigi Ferrami – dalle forze dell’ordine ci fu un appoggio a mio padre proprio perché erano in pochi a denunciare. Si sentì protetto, tutelato».
Anche se come avrà modo di suggerire Franca Ferrami: «non pensava che si accanissero in questo modo contro di lui, nel senso che si aspettava una ritorsione: una macchina bruciata, un danno al negozio. Certo, non pensava che invece la sua sarebbe stata una punizione esemplare». Dinanzi ad una richiesta estorsiva «non si riesce a credere a quello che sta accadendo, ci si sente smarriti e disorientati, non sai di chi ti puoi fidare», racconta l’imprenditore cosentino Alessio Cassano, già presidente dell’Associazione antiracket “Lucio Ferrami”.
Il 27 ottobre del 1981, Lucio Ferrami – in macchina insieme alla moglie – viene crivellato di colpi in contrada Zaccani, ad Acquappesa. Il 32enne muore sul colpo, ma riesce a compiere l’ultimo gesto d’amore. Dinanzi ai proiettili sparati a morte dai killer fa da scudo a sua moglie e le salva la vita. Maria si ritrova vedova e costretta suo malgrado a badare da sola ai suoi due bambini: Pierluigi e Paolo, all’epoca dei fatti di 9 e 3 anni. «Non sapevamo niente di quello che era successo, è stato uno shock, solo dopo la sua morte abbiamo appreso delle richieste di estorsione da lui riceveute», dice Franca Ferrami. «Mia mamma quando arrivarono le richieste di pagamento di questa tassa non dovuta fu la prima a dire a mio padre “andiamocene, ripartiamo da zero e costruiamo qualcosa fuori, da un’altra parte”», racconta Pierluigi Ferrami.
Il delitto Ferrami si consuma nei campi arati dall’indifferenza. Nel processo che si celebra dinanzi al Tribunale di Cosenza, Franco Muto, suo figlio Luigi e quattro uomini ritenuti vicini al clan vengono condannati all’ergastolo. In secondo grado, però, arriva l’assoluzione con formula dubitativa. Maria Avolio non accetta la sentenza e il gesto che compie è eclatante e porta alla denuncia della Procura della Repubblica di Paola, competente sull’indagine per l’omicidio di Lucio Ferrami e accusata di omissione di atti d’ufficio. Lucio Ferrami è uno dei pochi in quegli anni ad alzare la testa e a rimetterci la vita. «E’ un sacrificio offeso da una sorta di damnatio memoriae che si sviluppa, cioè la storia di Ferrami viene dimenticata nonostante egli dimostri dieci anni prima di Libero Grassi – ucciso a Palermo – come un imprenditore possa avere il coraggio di ribellarsi». «Era triste sapere che il suo sacrificio non era servito a nulla, che il suo nome era stato dimenticato da tutti», chiosa Franca Ferrami. «Mio padre mi manca tanto e oggi penso spesso a come sarebbe cambiata la mia vita se fosse stato sempre accanto a me».
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