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Polopoli: «Se tagliamo i legami col passato si corre il rischio di perdere le nostre radici»

Al Corriere il prof del liceo classico “F. Fiorentino” di Lamezia spiega perché ha tradotto in greco il brano di Vecchioni, guadagnando la ribalta nazionale

Pubblicato il: 18/04/2024 – 7:00
di Emiliano Morrone
Polopoli: «Se tagliamo i legami col passato si corre il rischio di perdere le nostre radici»

Francesco Polopoli è professore di Latino e Letteratura italiana. Per quanto giovane, ha una lunga esperienza di insegnamento tra la Lombardia, San Giovanni in Fiore e Lamezia Terme. Soprattutto, il docente si è distinto per l’originalità nella didattica, per la divulgazione del pensiero di Gioacchino da Fiore e per l’ampio contributo che, pure con opere inedite, dà alla valorizzazione della cultura e della lingua calabrese. Polopoli, nominato Cavaliere della Repubblica, ha vinto il premio nazionale “Salva la tua lingua”, conferitogli per il volume “I promessi sposi in breve. Assaggi e passaggi in Latino e Lametino”. Di recente, poi, con la sua classe, la V A del liceo classico Francesco Fiorentino di Lamezia Terme, ha tradotto in greco il brano di Roberto Vecchioni “Sogna ragazzo sogna”, guadagnando la ribalta nazionale, intanto al Tg1. Con questo professore, estroso, riflessivo, felice del proprio mestiere, oggi parliamo – dandogli del Tu per la conoscenza diretta – di sogni e futuro dei ragazzi, del ruolo dell’istruzione pubblica e dunque della prospettiva dell’autonomia differenziata per la scuola del Sud.

Che cosa significa aver tradotto in greco la canzone di Vecchioni “Sogna ragazzo sogna”?
«Aver dato la possibilità ai giovanissimi di riacquisire lo spazio musicale della versificazione: dalla lirica ai carmina il fil rouge è il canto, quella dimensione di parola che non è così lontana dalle performances artistiche di un cantautore di oggi. Ciò detto, è facile, poi, tesaurizzare l’idea che non esista avanguardia senza memorie storiche: da Omero a Nada o da Catone Censore a Battiato “è un attimo”, a dimostrazione del fatto che si ripresentano, a distanza di tempo, gli stessi nuclei tematici, a mo’ di rimbalzo, e che quest’ultimi hanno radici antiche che rimandano alla scuola dell’Ellade. Sostanziare il presente di passato, questo in sintesi il motore della nostra attività a favore dell’antico, il suo significato».

Da dove è nata l’idea di tradurre il brano?
«Dalle esperienze del CantaGrecia, un concorso musicale, per il quale ci siamo trovati secondi nel 2022 e primi, quest’anno, a livello nazionale, grazie ai miei studenti Francesco Maione e Lorenzo Colistra: da qui ci siamo detti “Perché non preparare qualcosa del genere per la Notte dei Licei Classici?”. Detto fatto, ci siamo misurati nuovamente con la canzone, che ha dato spazio alla creatività, favorendo un clima di inclusione. Ci vuole una vita per diventare giovani, ho l’abitudine di dire. Non nascondo che, accanto ai miei ragazzi, ho avuto modo di mescolare le nostre età, superando il gap generazionale che, per ruolo o circostanze, può dimorare in ambienti scolastici».

vecchioni

La traduzione è valsa la ribalta nazionale per te e per i tuoi studenti. Per una volta, qualcosa di significativo è entrato nello spazio pubblico ed è diventato popolare?
«È un argomento che ho già discusso davanti alle riprese Rai: che questo spazio pubblico avvalori l’idea per cui ci siamo spesi insieme alla V A del Liceo Classico Fiorentino di Lamezia Terme! Il testo di Vecchioni, nella semantica del nostro lavoro, rispecchia la sana e consapevole alleanza tra scuola e famiglia, tra docenti e studenti in quella che io amo chiamare “l’Odissea” della formazione, che è di preparazione alla vita. Gli eroi omerici ci chiedono, in sostanza, di alzare il nostro livello eroico, per poter scrivere, al pari di essi, pagine di epos e di letteratura personali. Insomma, un richiamo di idee, una staffetta dalla classicità alla contemporaneità».

La vida es sueño nel senso dell’illusione, dell’evanescenza delle cose, oppure come proiezione, desiderio di raggiungere grandi obiettivi?
«Sono l’anticamera dei nostri talenti, il nutrimento del nostro avvenire. Papa Francesco sottolinea: “I sogni sono importanti. Tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza in ogni azione quotidiana. E i sogni dei giovani sono i più importanti di tutti. Un giovane che non sa sognare è un giovane anestetizzato; non potrà capire la vita, la forza della vita. I sogni ti svegliano, di portano in là, sono le stelle più luminose, quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità. Ecco, voi avete nel cuore queste stelle brillanti che sono i vostri sogni: sono la vostra responsabilità e il vostro tesoro. Fate che siano anche il vostro futuro!”».

Il liceo classico ha ancora la sua importanza nell’era dell’Intelligenza artificiale, del dominio della tecnologia, della disumanizzazione dei rapporti tra le persone?
«Emerge un dibattito sempre più vivace a favore di una rieducazione sentimentale: come si insegnano i sentimenti nell’epoca più algida di relazioni? Con la letteratura, la poesia, il teatro. La sofferenza di Didone, la pazienza di Penelope, la pietas dell’eroe che vince, convince e avvince, l’incapacità a risolversi felici di Madame Bovary, l’amore che toglie il senno da andare a recuperare il senno sulla luna, il senso della colpa e del castigo, il dubbio amletico delle azioni, il tormento di chi come Macbeth ha ucciso il sonno: c’è una casistica letteraria infinita da sottoporre al proprio sguardo, per irrorarlo di emozioni. Il Liceo classico offre una direzione e un senso, attraverso i nostri sensi. “Sono cresciuto in mezzo ai libri, facendomi amici invisibili tra le pagine polverose di cui ho ancora l’odore sulle mani”, diceva Carlos Ruiz Zafon. Il Classico è una bussola orientativa, all’indietro, per procedere in avanti sui passi dei Giganti.  Non dimentichiamo che “la lingua racchiude in sé la maggior parte della storia di una comunità: perderne le parole significa creare vuoti nella narrazione collettiva di un popolo”. In questo la formazione classica non ha concorrenza alcuna».

Quanto è difficile, oggi, insegnare nelle scuole, formare i giovani, parlare il loro linguaggio, capirli, orientarli, valorizzarne intelligenza e personalità?
«Non è facile ma è giusto farli camminare nella verità: i giovani, ogni qualvolta si sentono responsabilizzati, fanno salti di qualità inimmaginabili. Motivarli ed accompagnarli, con serietà, sono gli imperativi categorici da declinare per il futuro delle future generazioni. Costa fatica, ma dà peso al tutto, senza essere pesante. Non avere più il valore del sacrificio significa non rendersi più conto di che cosa vuol dire sudarsi qualcosa: sembra démodé in un periodo cui si cerca la maniera più veloce e meno dispendiosa per arrivare al risultato. Eppure, si trascura il fatto che, prendendo la via breve, si tralasci il più bello, la fase del nostro percorso. Dobbiamo tornare ad assaporare la fatica e sudarci i nostri traguardi: più sarà dura la salita, più saremo felici quando pianteremo la nostra bandiera in cima, perché la meraviglia è nel viaggio».

La tua didattica è piuttosto nota, non soltanto in Calabria. Che cosa l’ha influenzata?
«La metafora gioachimita del fiore-frutto, che tesaurizzo prima di ogni mio ingresso scolastico: il desiderio, cioè, che ogni alunno possa essere, al pari di un fiore, la speranza di un frutto maturo. Oltre a questo, il messaggio esplicito di una rifioritura delle nostre memorie antiche. Se tagliamo i legami col passato si corre il rischio di perdere le nostre radici e non c’è formazione alcuna nello sradicamento. Gioacchino da Fiore sta “a monte” in questa mia didattica: la Sila è la mia “montagna delle Beatitudini”, il mio “Liber figurarum ad usum discipulorum”».

La scuola sembra seguire la logica bancaria del debito e del credito, almeno nelle valutazioni. È un fatto voluto? È inevitabile?
«Oggi il sistema scolastico è infarcito di figure e attività non chiare e distinte, cartesianamente parlando: orientatori, mentori, tutores, quote parti di educazione civica e mi fermo qui per non tediare chi mi legge. Contenuti ai margini e surrogati di conoscenza serviti in modo appetibile in una parvenza di cosa buona e giusta. Finzioni drammatiche nel teatro del quotidiano: così è se vi pare, senza maschere! Siamo ben lontani dalla lectio magistralis di Dante Alighieri, che scandì: “Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi dentro, ché non fa scienza/ senza lo ritenere avere inteso” (Par. V, vv. 40-42). Per Dante la memoria era, come per Quintiliano, del resto, il tesoro dell’eloquenza. Il futuro dell’Italia è un’economia culturale sempre più al ribasso, purtroppo».

C’è l’esigenza di recuperare la funzione della scuola come luogo di valorizzazione delle differenze, di sconfitta dell’ignoranza, di promozione del senso critico e del valore della libertà?
«Oggi il docente è chiamato a rimuovere le barriere che possono portare a diverse forme di esclusione e, allo stesso tempo, a progettare e gestire la pratica educativa attraverso modalità di apprendimento diverse in base alle differenti condizioni di contesto. La condizione necessaria è poterlo fare in un’agenda di lavoro che non sia la lista infinita di attività accessorie, che ci capita di vedere in non poche situazioni: la sfida sta nella selezione ragionevole sul da farsi».

Credi che la Calabria sia indietro, rispetto alle altre regioni, per quanto riguarda le sedi pubbliche del sapere?
«Da Nord a Sud, per mia esperienza personale e professionale, non trovo differenza dal punto di vista della formazione. Le menti meridiane sono eccellenti, il numero degli alfieri calabresi lo confermano nel 2023, per non parlare degli ultimi agoni classici di cultura classica. Il problema, invece, è l’occupazione: lo sbocco lavorativo porta fuori i nostri giovani e qui serve una riflessione politica piuttosto attenta».

Autonomia differenziata o istruzione nazionale?
«L’autonomia differenziata non è una semplice riforma amministrativa, ma una vera e propria rivoluzione politica, che cambierebbe radicalmente il volto dell’Italia e della sua scuola. Si tratta di una scelta che non può essere lasciata alla discrezionalità delle Regioni, ma che deve essere sottoposta al vaglio del Parlamento e del popolo, attraverso un dibattito pubblico e un referendum. Per quanto mi concerne – la storia insegna – che il decentramento fa rima con smarrimento e che, nel tardoantico, ha innescato persino crisi irreversibili. Vogliamo ritornare ad un altro Romolo Augustolo? Rammemoriamoci che da lì a poco seguirono le invasioni barbariche ed il crollo del sistema politico: questo per dire che cosa? In aree in cui i servizi vanno a carbonella, occorre riqualificare l’esistente, per non fare collassare quella parte d’Italia su cui pesa, dall’Unità ad oggi, la gravosa ed irrisolta questione del Mezzogiorno». (redazione@corrierecal.it)

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