VIBO VALENTIA Un progetto ambizioso, forse troppo. Per i milioni di euro in ballo, per i soggetti coinvolti. Troppo difficile da portare a termine “nell’ombra”. Quello di realizzare un canale di approvvigionamento di carburante proveniente direttamente dal gruppo petrolifero internazionale “Rompetrol”, da distribuire in particolare nella provincia vibonese con il supporto della cosca Mancuso, è stata la spina dorsale di una maxinchiesta, Petrolmafie, condotta dalla Distrettuale antimafia di Catanzaro con la prima sentenza che, in parte, ha visto crollare l’impianto accusatorio.
L’idea dei Mancuso, secondo la tesi accusatoria basata su intercettazioni – audio e video – servizi di appostamento e osservazione, era quella di acquisire numerose stazioni di servizio a cui apporre il marchio, distribuendo il prodotto su larga scala. Ma non è tutto: in seconda battuta anche il coinvolgimento dello stesso gruppo petrolifero nella costruzione di un oleodotto, con annesso deposito costiero, nel territorio del comune di Vibo e, precisamente, nella zona industriale di Porto Salvo. Il gruppo ‘ndranghetista vede il coinvolgimento di soggetti di spicco, tra cui Silvana Mancuso, i fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico, impegnati in una serie di incontri – come già emerso dall’inchiesta e in fase dibattimentale – cercando di ottenere il placet necessario del “Supremo” Luigi Mancuso ed entrando in trattativa con un gruppo di soggetti del Kazakistan.
Ed è a questo punto che, nella vicenda, entrano in gioco due soggetti: Francesco Saverio Porretta e Irina Paduret. I due – nonostante la richiesta di condanna dei pm, sono stati assolti «per non avere commesso il fatto». Già perché secondo i giudici, infatti, i due imputati «risultano coinvolti unicamente nella trattativa con la Rompetrol, nell’ambito della quale svolgevano un’attività di intermediazione tra gli esponenti della compagine calabrese e i kazaki». Quindi «sotto tale profilo, deve attribuirsi rilievo dirimente all’esito dell’affare, atteso che l’insuccesso delle trattative produce delle inevitabili conseguenze sul piano dell’elemento materiale del reato, non potendosi ravvisare alcun contributo concreto in favore dell’associazione».
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Dall’indagine era emerso che per l’attuazione del vasto progetto petrolifero, la “Rompetrol” necessitava ovviamente di un partner strutturato e già affermato nel mercato italiano, dotato di depositi e distributori per creare una joint venture che «doveva essere istituita in proporzione alle forze economiche e strutturali che le singole società aderenti». Mezzi che la DR Service di Giuseppe D’Amico non aveva. «Se ci interessa noi qui siamo… noi la materia prima vogliamo… quindi…» sentenziava il boss Luigi Mancuso nel corso di un lungo ed emblematico incontro monitorato dagli inquirenti. Come è noto, nonostante l’impegno e le dure trattative, l’ambizioso progetto imprenditoriale non si concretizza principalmente per via delle sostanziali diversità esistenti, in termini di dimensioni strutturali e commerciali tra lo DR Service e lo Rompetrol, oltre che per una mancata intesa sui prezzi di approvvigionamento del prodotto.
Secondo i giudici, non può sostenersi che l’apporto causale dei due imputati poi assolti debba essere rinvenuto nell’attività d’intermediazione in sé, «per quanto la condotta degli odierni imputati abbia offerto al sodalizio l’occasione di confrontarsi con imprenditori di livello interazionale». Secondo i giudici, infatti, una simile ricostruzione, indubbiamente suggestiva, «finisce per scontrarsi con il dato fattuale, che ha certificato la neutralità della vicenda in esame rispetto alla realizzazione dei proposti criminali dell’associazione». E chiosano: «Va certamente stigmatizzata la condotta degli imputati, che hanno svolto l’attività d’intermediazione in favore della compagine calabrese, nella piena consapevolezza dell’estrazione criminale degli esponenti del gruppo». (g.curcio@corrierecal.it)
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