‘Ndrangheta, l’intervento e il carisma di Luni Mancuso per sanare un debito. «Vediamo di convincerlo»
Nelle motivazioni della sentenza ricostruito il tentativo – secondo i giudici – di affermare il proprio prestigio criminale

VIBO VALENTIA «Mo’ vediamo se possiamo… se lo possiamo stringere in qualche maniera, mu chiudimu…» «se no lo stringo io, vado là e non so quello che faccio (…) a me i soldi miei me li deve dare». A parlare è Pantaleone “Luni” Mancuso (cl. ’61) e Francesco Capano (cl. ’72). I due sono stati condannati nel processo “Costa Pulita” nato dall’inchiesta della Dda di Catanzaro. Il primo a 13 anni e 8 mesi di reclusione, il secondo a tre anni.
Ad entrambi è stato contestato il tentativo di estorsione aggravata per costringere la vittima a pagare 8mila euro, cifra pari a quella che quest’ultimo aveva prelevato dal conto corrente intestato al fratello dell’imputato. A fornire elementi essenziali all’inchiesta, le attività di intercettazione operate presso il bar Tony a Nicotera Marina, nel Vibonese. Quella, ad esempio, dell’11 febbraio del 2013 in cui proprio Capano chiede aiuto a Mancuso con quest’ultimo che promette di intervenire ai fini della risoluzione della controversia. «(…) vediamo di convincerlo in qualche modo. Io conosco qualche persona là proprio a Paradisoni… quindi mo’ gli domando, tramite quello…».
L’interessamento di Mancuso
Passa qualche giorno, è il 25 febbraio, e i due si ritrovano nello stesso bar e tornare ad affrontare la questione. «(…) guarda, io avevo parlato a un ragazzo e mi ha detto “guarda, con me non ne ho amicizia, però tramite un altro, ha detto, gliela porto l’ambasciata. Risposte ancora non ne ho, ma è successo questo un paio di giorni fa… gli avevo mandato il biglietto…». E ancora: «Gli ho detto “digli se vuole stare pulito che stia pulito, se no…”. Gliel’ho data una botticeja…». Così Luni Scarpuni Mancuso cerca di dare una sorta di “spiegazione” a Capano in merito alla riscossione degli 8mila euro. Per gli inquirenti, e per come è emerso poi nella sentenza, nella conversazione emerge chiaramente l’interessamento di Mancuso per la vicenda oltre che con la sua intercessione anche attraverso le ‘mbasciate, affinché fosse onorato il debito di 8mila euro. Il soggetto deputato a riferire i messaggi di Mancuso era, secondo la pg, Francesco Grillo, il quale, visti i rapporti non proprio ottimi con il debitore, aveva fatto a sua volta recapitare il messaggio da una terza persona, tale “Mastru Cola”, rimasto però ignoto.
Sarà proprio Grillo ad informare Mancuso sull’esito della “ambasciata” fatta pervenire e riceve direttive finalizzate a “chiudere” quanto prima la questione. «(…) ha detto praticamente che è andato a trovarlo questo Michele e questo Michele gli ha detto “scusate un attimo, vedete che 7 mila e 200 euro glieli ho dati una volta a questo Capano, e 800 euro glieli ho dati un’altra, quindi sono 8 mila. Quindi questi soldi io glieli ho dati” e dice “se lui avanza altri soldi lo sa dove deve andare a prenderseli, deve andare a prenderseli da un certo Bagnato”».
La mediazione di Mancuso
Per i giudici, dunque, da questa vicenda emerga il ruolo e la figura di Pantaleone Mancuso «ancora una volta al centro delle attività di mediazione e risoluzione di problematiche di varia natura», si legge nelle motivazioni, «utilizzando il carisma derivante dalla sua appartenenza ad ambienti criminali di elevato spessore». Per i giudici, inoltre, l’episodio costituisce «dimostrazione della forza di intimidazione notoriamente riconosciuta a Pantaleone Mancuso nell’ambito del territorio di residenza». Inoltre, sempre secondo i giudici, sulla base della ricostruzione operata alla luce delle risultanze intercettive, «la minaccia non è stata avanzata dal creditore o in suo nome ma da “Mastru Cola” a nome di Pantaleone Mancuso che risulta portatore anche di proprie motivazioni individuabili nell’affermazione del proprio prestigio criminale, oltre a quelle del titolare del diritto». (g.curcio@corrierecal.it)
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