LOCRI Era un ragazzo generoso, donava il sangue e stava per dare il midollo. Amava le piccole cose, accudire gli animali e curare le piante. Era appassionato di calcio, della Reggina e del Locri, e si interessava alla storia del Novecento. Sono trascorsi esattamente vent’anni dalla morte di Massimiliano Carbone, ma il dolore di mamma Liliana resta vivo come se fosse il primo giorno. E’ un ricordo nitido e doloroso quello del figlio, il 30enne morto il 24 settembre 2004, a seguito delle gravi ferite riportate nel corso di un agguato a Locri. «Provo un vuoto e una grande indignazione perché gli hanno strappato la vita e gli hanno impedito di godere la vita. Si parla tanto della Locri bella, del mare e del sole, ma per mio figlio non ci sono più queste cose», racconta la donna al Corriere della Calabria.
I suoi assassini lo aspettavano sotto casa, nel cuore di Locri, appostati dietro un muretto. Era il 17 settembre del 2004 e come ogni venerdì, Massimiliano era andato a giocare a calcetto con gli amici. Stava rientrando a casa quando fu raggiunto da un unico colpo di fucile all’addome. Il 30enne venne portato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Locri, ma morì dopo sei giorni di agonia, il 24 settembre, il giorno del compleanno di sua madre Liliana.
«È stato ucciso perché aveva avuto una relazione con una donna che interessava ai Cordì», rivelò nel 2017 un collaboratore di giustizia. Qualche anno prima della sua morte, Massimiliano aveva infatti iniziato una relazione con una donna che, poi si scoprirà, essere sposata. Una relazione dalla quale nascerà un bambino: sarà un test del Dna effettuato dopo la morte del 30enne ad accertarne la paternità. Ad oggi non esiste nessuna verità giudiziaria: l’unico indagato è stato prosciolto e il caso sull’omicidio è stato archiviato nell’ottobre del 2007.
Sono nitidi i ricordi di Liliana Carbone di quei tragici momenti che mai potrà dimenticare: «Ricordo tutto – racconta – Dallo sparo, uno e nitido, alla corsa per le scale che non finivano mai, alle chiavi per terra in cortile. Mi ricordo quando lo vidi su una lettiga che veniva spinta nel corridoio dell’ospedale e anch’io tentavo di spingerla, e lui mi ha detto: “Mamma vidimi u figghiolu (Mamma bada tu per me al bambino)“». Sul caso non si è mai arrivati a una verità giudiziaria, ma per mamma Liliana un verità che nessuno potrà mai negare esiste: «Una verità, non giudiziaria, ma una verità acclarata, validissima e incontrovertibile c’è. Una verità costata il cambio di bara e di lenzuola che nessuna madre può immaginare, la verità l’ha detta Massimiliano», afferma la donna riferendosi all’esumazione del corpo del 30enne per effettuare le analisi del Dna che hanno provato che quel bambino nato da una relazione con una donna sposata era realmente suo. «Io non ho continuato a chiedere giustizia per Massimiliano soltanto, l’ho fatto perché un figlio deve sapere quali sono le sue radici, deve sapere se è nato da un amore, se è stato allevato nella menzogna, deve sapere se è stato avvelenato di odio verso i suoi veri consanguinei».
Ma la speranza di poter affermare una verità anche nella aule di Giustizia sembra essere ormai venuta meno: «Una verità giudiziaria non ci può essere perché le persone coinvolte nella morte violenta di mio figlio sono tante. E’ morto pur di non rinunciare all’amore per il suo bambino, per il suo lavoro, all’attaccamento per la sua famiglia e a questo maledetto paese in cui l’ho portato quando aveva 16 mesi e da cui non me ne sono andata. E’ stato strappato alla vita, gli è stato impedito di dire che era padre. Faceva ombra a tanti miserabili, piccoli esseri, omuncoli». (m.ripolo@corrierecal.it)
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