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i conti con la storia

Sequestro e omicidio Mazzotti, dall’impronta alla confessione: l’ultimo debito della ‘ndrangheta

Partito un nuovo processo per una storia mai chiusa. Un conto da pagare dopo l’ammissione di Latella e il lavoro del legale della famiglia Caccia e Mormile

Pubblicato il: 30/09/2024 – 6:54
di Giorgio Curcio
Sequestro e omicidio Mazzotti, dall’impronta alla confessione: l’ultimo debito della ‘ndrangheta

LAMEZIA TERME Dopo quasi cinquant’anni, la morte della giovane Cristina Mazzotti torna protagonista della cronaca nazionale, squarciando il buio su una storia quasi dimenticata, inabissata nella memoria di una Paese costretto ancora a fare i conti con una passato oscuro e terribile. Qualche giorno fa, davanti ai giudici della Corte d’Assise di Como, si è aperto il processo nei confronti di quattro imputati. Vecchie figure di un’epoca lontana, tutti legati alla ‘ndrangheta calabrese. In aula c’erano Giuseppe Calabrò, cl. ‘50 detto “‘U Dutturicchiu” e Antonio Talia, classe ’51 di Africo. Assenti, invece, il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, cl. ’44 di Africo e indicato quale rappresentante della cosca “Morabito-Falzea” attiva a Tradate e Demetrio Latella, reggino classe ‘54. Quattro nomi di assoluto spessore criminale, certi probabilmente di aver chiuso i conti con il passato. Ma così non è stato.

L’udienza in Corte d’Assise (Foto Corriere della Sera)

La notte dell’1 luglio ’75

Come ricostruito negli anni e in una informativa della Questura di Milano, nella notte dell’1 luglio del 1975 Mazzotti si trovava in compagnia di due amici a bordo di una Mini Minor. E, mentre stava rientrando presso la residenza estiva della propria famiglia, a Eupilio, in provincia di Como, l’auto fu bloccata da una Fiat 125 che si mise di traverso sulla strada mentre dal bosco limitrofo uscirono tre soggetti dei quali due, dopo aver fatto salire i tre giovani sul sedile posteriore, si misero l’uno alla guida e l’altro a lato passeggero. La Mini, scortata dalla 125, raggiunse Appiano Gentile, dove i due amici furono narcotizzati e abbandonati, non prima di aver squarciato le gomme e tolto le chiavi.

Cristina Mazzotti, invece, fu fatta salire sulla Fiat e portata via. Fu consegnata ai carcerieri ad Appiano Gentile, per poi essere trasferita a Castelletto Ticino, dove era stata tenuta prigioniera in una buca con pareti di cemento, all’interno di un garage, profonda 1 metro e 45 centimetri, lunga 2 metri e 65, larga 1 metro e 55 da cui usciva all’esterno un tubo di plastica di 5 centimetri per respirare. Come ricostruito all’epoca, i carcerieri erano soggetti legati alla criminalità lombarda e piemontese, mentre gli organizzatori, gli autori materiali e coloro i quali avevano mantenuto i rapporti con la famiglia Mazzotti per il pagamento del riscatto, erano legati alla criminalità organizzata calabrese. La ragazza morì nella notte tra il 31 luglio ed il 1° agosto 1975, per via delle enormi quantità di calmanti ed eccitanti che le vennero somministrati, con lo scopo di fornire la “prova in vita” della ragazza con risposte a domande alle quali solo lei poteva o sapeva rispondere, nel dialogo con i familiari per ottenere il riscatto.

La (doppia) svolta

Un caso riaperto per le nuove risultanze investigative e dalla svolta arrivata nel 2015 con la sentenza delle Sezioni riunite della Cassazione che stabilì come «imprescrittibile» con qualunque attenuante il reato di omicidio volontario. E poi il lavoro dell’avvocato Fabio Repici, già protagonista di altre terribili storie di cronaca del nostro Paese. Già avvocato di parte civile della famiglia del magistrato Bruno Caccia, ucciso nel 1983, Repici è il legale anche dei familiari di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera ucciso dalla ‘ndrangheta nelle campagne di Carpiano, nel Milanese, l’11 aprile del 1990 per il quale il gup di Milano, nelle recenti motivazioni, ha riscritto una storia che sembrava già chiusa. Proprio come nel caso della giovanissima Cristina Mazzotti. Su tutte le superfici utili interne ed esterne della Fiat 125, infatti, furono eseguiti i rilievi da parte della Polizia Scientifica di Como che individuò ed asportò 13 frammenti di impronte papillari, tre dei quali (un frammento palmare e due digitali) risultarono utili per le comparazioni.

La confessione di Latella

Bisognerà attendere il 2006 per trovare l’effettiva corrispondenza con quella relativa al dito pollice della mano destra di Demetrio Latella detto “Luciano”, soggetto pluripregiudicato ed appartenente al clan Epaminonda, per il quale aveva realizzato vari omicidi e sequestri di persona. Fu proprio Latella, interrogato dal sostituto procuratore della Dda di Torino, Onelio Dodero, a fornire elementi fondamentali. Latella spiegò che alla fase “attiva” del sequestro, oltre a lui parteciparono Giuseppe Calabrò, Antonio Romeo e Antonio Talia i quali, subito dopo aver consegnato l’ostaggio agli occupanti dell’auto che aveva loro fatto da staffetta, erano rientrati a Milano. Latella e Talia erano stati lasciati in via Rovereto, con l’accordo che Calabrò li avrebbe successivamente contattati. Nel frattempo, la posizione di Romeo è stata stralciata. Ma a processo c’è anche il boss Morabito, l’80enne è infatti ritenuto l’ideatore del rapimento di Cristina Mazzotti, unitamente a Francesco Aquilano e Giacomo Zagari, entrambi boss della ’ndrangheta calabrese operante in Lombardia ormai deceduti.

La buca dove fu tenuta prigioniera

La tragica fine e il conto aperto

Il corpo della giovane Cristina Mazzotti fu poi rinvenuto in una discarica a Varallino di Galliate, nella provincia di Novara. Una telefonata anonima ai carabinieri aveva indicato dove scavare. Già nel 1975 le indagini avevano portato all’individuazione, e alla cattura, di gran parte di quelli verranno riconosciuti come organizzatori, esecutori materiali e carcerieri di Cristina Mazzotti. Il processo culminò poi due anni più tardi con numerose e pesanti condanne, in gran parte confermate anche dai successivi gradi di giudizio. La Cassazione, a maggio del 1980, confermò 14 condanne e 4 ergastoli. Otto di loro, intanto, sono già deceduti. Ci fu poi un secondo processo, nel 1992, nato dalle dichiarazioni di Antonio Zagari. Quest’ultimo, infatti, aveva fornito il nome di altri due soggetti che avevano partecipato alla fase organizzativa, uno dei quali deceduto “a causa” delle irregolarità commesse nella suddivisione del riscatto. Per Latella, Calabrò, Talia e Morabito, invece, il conto con la giustizia è ancora aperto, nonostante siano passati 49 anni. (g.curcio@corrierecal.it)

Foto in copertina: la Mini Minor abbandonata / La Provincia di Como

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