L’acceso dibattito, con tante fake news, della campagna per il referendum consultivo per la città unica non è un buon segnale. Rimane sempre valida l’affermazione di Otto von Bismark che non si raccontano mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo una battuta di caccia. Tuttavia, il clima di contrapposizione frontale nelle comunità di Cosenza, Rende e Castrolibero, con opinioni “a ruota libera”, ha impedito che ci fosse un confronto approfondito su alcuni temi importanti del dibattito, quali, ad esempio, l’autonomia dei Comuni, il ‘centralismo’ regionale e la frammentazione comunale.
Solo qualche giorno fa c’è stata una standing ovation a Torino, all’assemblea dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia (ANCI), per le parole del Presidente della Repubblica Mattarella, il quale riaffermava l’esigenza di valorizzare il principio dell’autonomia comunale, inteso come “valore repubblicano” e come “fondamento della democrazia”. Mi chiedo, però, al di là dell’ovazione a Mattarella, se qualche amministratore regionale o qualche dirigente dell’ANCI calabrese abbia pensato al fatto che la Regione Calabria sia l’unica Regione d’Italia a non prevedere la partecipazione degli stessi Comuni nell’avvio del procedimento di fusione. Anzi, il Consiglio Regionale, con una legge cd. omnibus del 2023, ha abrogato l’art. 5 della l.r. 15/2006, che prevedeva l’adozione delle delibere consiliari dei Comuni per la fusione prima del referendum, la cui logica risiedeva nel fatto che tali atti fossero utili per una decisione matura e consapevole sull’opportunità o meno di dare il via ad un percorso legislativo di fusione. Non è esagerato affermare che ci sia un ‘caso Calabria’ per il procedimento di fusione che mortifica significativamente l’autonomia comunale, rimpiazzando la decisione “dal basso” dei Consigli comunali con una decisione ‘dall’alto’ da parte del Consiglio regionale per l’avvio del procedimento di fusione. L’unicità e la particolarità della scelta del legislatore calabrese, in controtendenza con le legislazioni delle altre Regioni, ci pone una prima domanda: la Calabria è la Regione più avanzata d’Italia in quanto a capacità decisionale, con l’eliminazione di passaggi ‘democratici’ su questioni della massima rilevanza per l’autonomia degli stessi Comuni che si potrebbero fondere, oppure è la Regione d’Italia più ‘indifferente’ ai valori dell’autonomia comunale? Certamente, l’impressione emersa a Torino, con il plauso unanime della classe politica nazionale e locale, rappresenta la conferma che i Comuni costituiscano la “spina dorsale della democrazia italiana e l’espressione più autentica del pluralismo sociale e culturale del nostro Paese”. I cittadini e le cittadine dei tre Comuni che voteranno domenica al referendum avranno la consapevolezza che votare, questa volta, significa scegliere tra il rafforzamento dell’autonomia comunale, oppure, al contrario, essere accondiscendenti verso un centralismo regionale anche su questioni di carattere locali?
Eppure, sarebbe sufficiente che la Regione non prestasse, per il momento, attenzione alla fusione dei tre Comuni e si occupasse prioritariamente dei problemi principali dell’assetto territoriale della Calabria. C’è un numero maggiore di Comuni in Calabria che in Toscana, in Emilia-Romagna o nel Lazio. Su 404 Comuni presenti in Calabria, sono 324 quelli con una popolazione residente inferiore ai 5.000 abitanti (circa l’80%), di cui 20 con meno di seicento abitanti. Nella Regione esistono, inoltre, anche realtà comunali con meno di 300 residenti: 155 residenti a Staiti (in provincia di Reggio Calabria); 212 Carpanzano e 291 Castroregio, entrambe nella provincia di Cosenza (Dati OpenCalabria). Quindi, a fronte di una forte frammentazione comunale, il Consiglio regionale calabrese è intervenuto per la fusione di Comuni di dimensioni medie, mentre sono i piccoli comuni a costare molto, ad assorbire ingenti risorse in rapporto al numero degli abitanti e, soprattutto, sono tali enti quelli che non riescono a offrire servizi pubblici di qualità (se li riescono a offrire). Se la Regione si dotasse di un piano di riordino dell’assetto territoriale, si potrebbe intervenire con maggiore incisività e, soprattutto, con un maggiore consenso, sulle priorità degli interventi e certamente non individuerebbe come spazio critico i Comuni proposti per la fusione, ma, prioritariamente, i cd. “Comuni polvere” per proporre processi di associazionismo e avviare la fase di rendere l’assetto territoriale più adeguato.
Nel caso della fusione dei tre Comuni, invece, l’iniziativa è stata presa da alcuni Consiglieri regionali, senza disporre di dati sui vantaggi e sugli svantaggi della fusione. Lo studio di fattibilità è stato commissionato dopo aver preso la decisione di avviare il processo di fusione e non prima, come si è fatto in altre Regioni, al fine di avere un quadro più trasparente e oggettivo dell’esigenza o meno di andare avanti. Domenica 1° dicembre si andrà a votare, ma se dovesse nascere il nuovo Comune, anche con tempi lunghi, nascerebbe nel modo peggiore. Nascerebbe sul contrasto e sulla polarizzazione degli schieramenti per aver voluto imporre una decisione dall’alto, delegittimando gli stessi Comuni che sono le uniche istituzioni in grado di cogliere le esigenze della cittadinanza e avviare un processo di associazionismo, che non deve essere necessariamente la fusione. La normativa sugli enti locali mette a disposizione altri strumenti meno vincolanti della fusione, quale l’Unione dei Comuni, che uno dei massimi esperti di enti locali, Luciano Vandelli, definiva un ‘matrimonio in prova’ per comprendere in anticipo i reali intenti collaborativi dei Comuni. In conclusione, ancora una volta si deve constatare in Calabria il fallimento del cd. regionalismo cooperativo, che si basa sulla ‘leale collaborazione’ e la ‘forte integrazione’ tra Regione ed enti locali per le decisioni da prendere per le istituzioni calabresi e si afferma nuovamente lo spirito ‘accentratore’ della Regione.
*Docente di Diritto delle Autonomie Territoriali – Università della Calabria
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