LAMEZIA TERME «Già con la procura di Reggio Calabria sono stati numerosi i collegamenti investigativi che avevamo individuato con il territorio piemontese. Per parlare delle infiltrazioni e della penetrazione della ‘ndrangheta in quel territorio, infatti, non si può prescindere dai dati giudiziari acquisiti e quindi non si può prescindere in particolare dall’operazione “Minotauro”, che risale al 2011, e qualche mese dopo “Infinito” e “Crimine” operazioni che erano state realizzate rispettivamente a Milano e a Reggio Calabria». A parlare è l’ex procuratore della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, attuale capo della Procura di Torino, nel corso dell’audizione nella Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, presieduta da Chiara Colosimo.
«La penetrazione della ‘ndrangheta nel Piemonte – ha spiegato Bombardieri – sicuramente risale a molti anni prima. Peraltro, già nel 1973, la Commissione antimafia, istituita dieci anni prima, aveva inviato una delegazione a Bardonecchia, proprio a seguito di quello che stava emergendo circa una serie di atti intimidatori ed emergenze legate allo sfruttamento dell’intermediazione abusiva di manodopera» «Già all’epoca erano emerse infiltrazioni di soggetti di provenienza calabrese che avevano “importato” in Piemonte una metodologia criminale che era propria della ‘ndrangheta: intimidazioni, atti intimidatori e danneggiamenti, persino soggetti riferibili a questo gruppo sospettati di omicidi in quegli anni». I nomi che erano emersi in quegli anni erano appunto quello di Rocco Lo Presti, «soggetto originario di Marina di Gioiosa Ionica, inviato in soggiorno obbligato a Bardonecchia e lì aveva realizzato un “impero” nel campo dell’edilizia, raggiunto poco dopo da Vincenzo Mazzaferro, un suo cugino sempre della stessa provenienza geografica, e soggetti che erano considerati ed erano menzionati in questo rapporto del questore dell’epoca, che è alla base della richiesta da parte del procuratore Caccia dell’epoca, nel 1975, per il confino all’Asinara dello stesso Rocco Lo Presti», ha spiegato ancora Bombardieri in audizione.
Secondo quanto spiegato ancora dall’ex procuratore reggino «c’è poi un altro elemento in relazione all’infiltrazione ‘ndranghetista del Piemonte, oltre a quelle legate allo svolgimento di lavori sulla viabilità, il traforo del Fréjus e una serie di lavori oggetto di infiltrazione della ‘ndrangheta in un periodo in cui ancora non era stato neanche codificato il 416-bis che risale al 1982: nel 1983 viene ucciso il procuratore Caccia, e anche qui ci sono sentenze passate in giudicato dell’autorità giudiziaria di Milano che legano questo omicidio direttamente alle cosche di ‘ndrangheta», e Bombardieri cita Domenico Belfiore, condannato all’ergastolo come Rocco Schirripa, anche lui legato al gruppo criminale dei Belfiore, operanti in Piemonte, rispettivamente mandante e uno degli esecutori materiali, altri soggetti invece non sono stati ancora individuati in via giudiziaria.
Per il procuratore dunque «l’omicidio è riconducibile ad organizzazioni criminali ‘ndranghetiste, anche perché Belfiore aveva costituito un gruppo criminale che in quegli anni si era affermato nel contrasto con cosa nostra catanese, presente nella città piemontese».
Nel corso della sua adizione il procuratore antimafia ricorda il processo “Minotauro” che «ha affrontato in modo sistematico il profilo dei rapporti case madri calabresi e le proiezioni ‘ndranghetiste nel Piemonte» mentre nel 1995 con il processo “Cartagine” che aveva ad oggetto il gruppo Belfiore, «si aveva evidenza dell’importanza di questa infiltrazione attiva nel campo dell’edilizia, ma anche in quello del traffico di stupefacenti. Proprio in quegli anni avviene un sequestro importantissimo di oltre 5 tonnellate di cocaina, nel territorio piemontese, riconducibili proprio a questo gruppo criminale». Da “Minotauro” si avranno «le prime affermazioni giudiziarie che affrontano il problema delle relazioni tra ‘ndrangheta calabrese e proiezioni ‘ndranghetiste, riconoscendo che si tratta di infiltrazioni che hanno una propria autonomia sotto il profilo operativo mentre dipendono organizzativamente dal crimine di Polsi», osserva. Allo stesso tempo era stata riconosciuta «l’esistenza di una serie di locali nel territorio di Torino e nel territorio piemontese e per quanto riguarda “Minotauro”, così come prima con “Crimine” e “Infinito”, «si afferma il principio dell’unitarietà della ‘ndrangheta dislocata sia nei territori di origine che con le sue proiezioni nel Nord Italia». E il procuratore della Dda di Torino ricorda un’affermazione della Corte d’Appello Proprio che spiegava come «la ‘ndrangheta non può ritenersi più un insieme di locali o di cosche, ma una struttura unitaria di cui le locali piemontesi sono articolazioni territoriali con un organismo di vertice che è il crimine di Polsi». Un’affermazione che, ha spiegato ancora Bombardieri in Commissione, vale «sia sotto il profilo interno che quello esterno e cioè i collegamenti interni alla ‘ndrangheta stessa in Piemonte sono stati rilevati nei termini di una “confederazione” tra le cosche del Piemonte, un collegamento sistematico e continuo in occasione di rituali di affiliazione, di scelte strategiche che potevano essere anche quelle relative all’apertura o alla chiusura di locali già presenti o alla riattivazione di locali sospese per vari motivi».
La “confederazione” fra le cosche piemontesi «si rapportava sistematicamente, in occasione delle riunioni strategiche più importanti, attraverso dei soggetti considerati i referenti, con le case madri di provenienza. Questo valeva, per esempio, per i locali di Siderno impiantate a Torino, quelli di Natile di Careri impiantata a Torino o il locale di Volpiano riferibile al territorio di Platì». (g.curcio@corrierecal.it)
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