Da pochi giorni è mancato Walter Pedullà, intellettuale immenso e acuto interprete della cultura novecentesca. Nella sua intensa attività culturale ha “strapazzato miscele di paradosso e ironia” – sono parole sue, con l’obiettivo di fare “con la semplicità cose molto complicate,con la superficialità cose anche un po’ profonde, e con il gioco fare delle cose serie”. Andrea Cortellessa l’ha definito ”sciamano che ride, il più agitato, e insieme il più disincantato, fra i grandi critici della sua generazione”. Lo stesso Pedullà – parafrasando Holderlin (“Tu ridi, non fai altro che ridere, ma questa non è disperazione ?”) affermava che la sua “disperazione è euforica: la tengo a distanza di sicurezza”. E alla stessa distanza teneva anche ciò che “ si dà arie di verità assoluta : mi difendo con l’ironia, cioè il grado di comicità che sta a cavallo tra il riso e il dramma”. Era una sorta di ossimoro vivente, al tempo stesso disincantato e nutrito di slanci ideali che ridimensionava in modo ironico, a volte burlesco. “Non sono io ad essere attirato dal mondo favoloso, sono io invece a sperare che qualcosa mi racconti una bella favola. La mia più seducente favola? Il socialismo. La teoria politica che prometteva uguaglianza, libertà e fratellanza. Come l’illuminismo. Ebbene sì, sono un illuminista, che ama i paradossi di Diderot e Voltaire.” Era anche profondamente autoironico: ”All’analisi del mio sangue risulta presenza cospicua di inchiostro; sconfino sempre dalla letteratura alla realtà e viceversa”.
Sidernese di nascita e romano d’adozione, fu presidente della Rai e del Teatro di Roma. Socialista, critico militante, ha diretto le riviste letterarie “Il Caffè Illustrato” e “L’Illuminista”, ed è stato presidente di importanti premi letterari e curatore di un’opera monumentale, Cento Libri per Mille Anni che raccoglie più di mille autori e più di cinquecento opere. Insieme a Nino Borsellino ha diretto La storia generale della letteratura italiana, opera monumentale in 12 volumi alla cui stesura hanno collaborato ben centonove specialisti. Dal suo grande Maestro Giacomo Debenedetti, Pedullà ha raccolto il testimone di Decano della critica letteraria; in lui, all’intensità debenedettiana si accompagna uno spirito mordace, sanguigno ed estroso. Era dotato di quel sottile, efficace, umorismo che consente di prendere piena consapevolezza della reale condizione umana. Del resto, “un critico è solo uno scrittore che cerca il senso della realtà contemporanea attraverso i testi altrui”, amava dire. E’ stato professore Emerito dell’ Università “La Sapienza”, dove per mezzo secolo ha insegnato Storia della Letteratura moderna e contemporanea e ha diretto il Dipartimento “Italianistica e Spettacolo” della Facoltà di Lettere e Filosofia. Per i suoi novant’anni, l’ateneo romano gli ha dedicato un libro, Il novantesimo anno di Walter Pedullà, in cui lui ha voluto inserire cinquanta pagine delle nostre lunghe conversazioni (qui ne riprendo alcuni stralci) già pubblicate dal 2013 al 2020 sul Magazine del Consiglio regionale della Calabria. A distanza di pochi mesi, nel settembre 2020, è stato dato alle stampe il suo “Il pallone di stoffa – Memorie di un nonagenario“, in cui egli narra gli anni della sua giovinezza in un Sud povero che aspirava al riscatto culturale e sociale. Pedullà non ha mai disdegnato di ricordare la sua “gavetta”, i suoi sacrifici, i tempi in cui, giovanissimo, dava lezioni private dall’alba al tramonto. Ha sempre lavorato con ritmi serrati, passando “notti intere a perlustrare testi che cedono qualche segreto all’alba dopo ventiquattr’ore di maniacali verifiche”. Con grande semplicità e altrettanta schiettezza ammetteva: “a me non viene nulla naturalmente. Naturale io lo divento con accanita ricerca”. E qui, c’è la sua formazione familiare, il rigore, le serietà, il forte senso di responsabilità a cui è stato educato dal padre Salvatore, dalla madre Marcella e dalla lectio di vita del fratello Gesumino. Non ha mai rinnegato la sua terra, tutt’altro: ” Nos sumus romani, qui ante fuimus calabri” è il verso di Ennio che amava ricordare. Come docente è stato amatissimo dai sui allievi e dalle sue allieve :”Da loro ho imparato molto. Ora sono sparsi nelle Università, nei giornali, nelle tv, nelle case editrici. I miei migliori eredi sono quelli che sono andati oltre la mia lezione. Così ho fatto anch’io con il mio Maestro Giacomo Debenedetti, che è stato il maggiore critico letterario del Novecento. Ho educato all’eresia i 2500 studenti che si sono laureati con me. Un esercito pacifico che si è distinto in battaglie culturali.” Per lui il compito della letteratura era quello definito da Walter Benjamin: “generare esigenze, … per quanto, dicendolo, mi pare d’essere troppo ottimista. Non stiamo generando nulla di nuovo, e l’ineleganza viene sostituita dalla volgarità. Il cliché dominante è costituito da una scrittura sciatta e corriva, un parlato da registratore, storie a effetto, tanto più se si tratta di romanzi storici, dove in assenza di fantasia si può far succedere di tutto per attirare chi vuole sentirsi raccontare fatti veri o documentabili come tali. Un’impostura di cui siamo complici tutti, recensori, editori e industriali del libro che pretendono subito il pareggio del bilancio rinunciando di ottenerlo, come nel passato, con un magazzino pieno di opere cui serve più tempo per essere assorbite. Un suicidio collettivo. Leggiamo troppa spazzatura, in cui, comunque, galleggiano alcune opere dignitose, e perché no? belle. Bisogna avere fiuto per sentire il buon odore emanato dal testo di un giovane o vecchio narratore. Nonché fiato, cioè senso della storia e della cultura che chiedono il cambio dei linguaggi usurati.” Fare parte del suo Parnaso era cosa assolutamente difficile, tante le sue stroncature, di nomi anche famosissimi. Nel recensire un’opera rimaneva estraneo a certe “calorose effusioni che non è onesto fare e che comunque mai farei ”, si legge nel suo “Giro di vita”. Da intellettuale militante, era convinto che l’arte è forza che contribuisce allo sviluppo della società, “purtroppo ora è in crisi l’idea stessa di funzione sociale dell’arte. Diciamo che l’arte la assolve senza darlo a vedere, per il fatto stesso di scrivere della società aiutandola a capire prima e così crescere. Andiamo avanti, si vedrà più tardi dove stiamo andando, ha detto qualcuno”. Della letteratura che racconta vicende di ‘ndrangheta, apprezzava il fatto che ”ci aiuta a conoscere un fenomeno che, però – avvertiva – non bisogna valutare con atteggiamento da moralisti: la ‘ndrangheta è forza eversiva mondiale. Questi figli di pastori che vanno alla conquista della Terra, hanno imparato la peggiore lezione del capitalismo, che ha posto come obiettivo massimo della lotta per il potere l’acquisizione della ricchezza. Chi poteva immaginare che nei paesi montagnosi o collinari della Calabria fosse in incubazione il più grande fenomeno di criminalità mondiale? Le piccole ‘ndrine sono diventate gigantesche holding che intimoriscono il mondo intero. Ma cos’altro c’è sotto? Non sappiamo ancora abbastanza e i moralismi concludono l’istruttoria con una generica condanna che lascia intatta la questione.“ Definiva la ‘ndrangheta paradossale avanguardia calabrese:“L’avanguardia non è rappresentazione del reale bensì creazione artificiale di ciò che si può ottenere con rischio mortale; “nuova, impossibile e vera”, così Bontempelli definiva l’arte moderna, e, paradossalmente, la ‘ndrangheta è una finzione realizzata come meglio, cioè come peggio, non si poteva: è lo sviluppo di antiche cellule criminali ma è anche una colossale creazione di qualcosa che non esisteva, è il capolavoro di una collettiva e prodigiosa mente criminale; i suoi tentacoli arrivano in ogni città del mondo. La ‘ndrangheta è diventata un mistero infinito da quando ha indossato l’abito della festa per entrare a Wall Street, alla City e alle Borse di Tokio e Shanghai. Potrebbe morire solo insieme al liberismo?”Con questa domanda Pedullà apriva, provocatoriamente, un varco labirintico, moltiplicando all’ennesima potenza la problematicità della domanda e di un’eventuale risposta … E poi, la “questione femminile”: in un vecchio numero della sua rivista Il Caffè Illustrato, con la lucidità che gli era propria, aveva scritto che gli uomini sfruttano la questione “secondo una logica che non prevede uguaglianza tra i sessi”. E comunque, era convinto che “giorno verrà in cui le grandi scrittrici saranno più numerose dei grandi scrittori. Ora noi critici diamo loro dieci posti su cento, ma le professoresse che occupano le cattedre di letteratura contemporanea stanno affilando le armi, potremmo, domani, finire con la graduatoria ribaltata e con le scrittrici migliori ben oltre la metà dei posti di vertice. Se hanno bisogno di aiuto, lo chiederanno alle lettrici, che sono già molte di più dei lettori. Se non ci sarà una scissione di gruppo fra queste (affermazione anche questa improntata a implacabile senso della realtà) , i maschi perderanno e dovranno combattere per le pari opportunità che per secoli hanno negato alle femmine.“ Diceva di avere vissuto tutte le vite del Novecento, “ dalla miseria fascista al benessere degli Anni Sessanta al rientro degli emigrati, dal neorealismo degli Anni 1945-56 al neosperimentalismo degli Anni 1956-60, dalla neoavanguardia degli Anni Sessanta al “nuovo realismo” degli Anni Settanta, il decennio in cui ebbero risonanza nazionale i cosiddetti “selvaggi”, una corrente d’avanguardia “povera” che ha come narratori solo dei calabresi. Scrivo, e scrivo, a favore degli scrittori meridionali che paradossalmente sono più letti al Nord che non al Sud, punto cardinale che oggi pare aver perso la bussola” In effetti, i calabresi hanno sempre letto poco, e, fino agli anni ’50, erano pochissimi coloro che sapevano leggere, mentre nel Veneto, regione che nel dopoguerra aveva una condizione simile a quella calabrese, si legge più che in tutto il Sud. Ma chi non legge non ha “la spinta delle idee”, avverte l’intellettuale militante. “Oggi è irrinunciabile il ricorso alle idee. Ovviamente servono nuove idee, quelle vecchie sono troppo consumate, sono scontate e banali. Uno dei buoni motivi per cui non si legge potrebbe essere questo: se la letteratura trasmette messaggi logori, non esistono ragioni perché sia letta. Oppure si legge quella tradizionale e scolastica che non aggiunge nulla al risaputo. Sia data libertà a chi legge per divertimento ma così si devia dalla strada alla fine della quale c’è la scoperta di un segreto della nostra vita. Ci divertiamo tanto perché non ci vogliamo pensare? Così non troveremo mai le idee capaci di guidarci alla via d’uscita che sempre esiste. E io, caparbio come un calabrese, ripeto il ritornello: se non riuscite a cambiare la realtà, cambiate punto di vista, insomma l’immagine sia vera! Così sia la letteratura che fa Cultura. Una poderosa e nuova Cultura è sempre madre di realtà materiale, genera esigenze che sono violente come la fame. E ancora, a proposito di progresso sociale e di emigrazione intellettuale: ” Lottare per risalire non significa andare al Nord. Per staccarsi dal fondo bisognerà puntare i piedi sul Sud. Credo alla capacità del Meridione di ottenere il massimo da se stesso per istinto di sopravvivenza. Nel Sud si sta sicuramente peggio che in tutto il resto dell’Europa. Ma siamo soltanto ridicoli se attribuiamo al Nord la colpa dei nostri mali. Saranno forse pure ingigantiti dal cannocchiale rovesciato con cui si guarda il Mezzogiorno, ma noi rovesceremmo la verità più oggettiva se non ammettessimo che tendiamo ad autoassolverci. Ci sarà da scarpinare in salita”. Poi, diviso tra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione, speranza e disincanto, inevitabilmente contraddittorio: “Confesso il disagio: mi blocco, o mi avvito, quando mi interrogano sul futuro. Come profeta sono cieco, a tentoni agitando l’aria non tocco con mano l’avvenire migliore che continuo a cercare. Per andare avanti faccio lo spiritoso e concludo che, se abbiamo toccato il fondo, o moriamo o risaliamo. Visto da sotto, o dalla mia distanza, il Sud non pare poi così giù: più moralmente che economicamente, mi sembra. Ha virtù nascoste? Non tutto mi è chiaro a questo riguardo. Non faccio i conti in tasca a nessuno, ma segreti restano i conti correnti di meridionali che sono poveri solo per l’Agenzia delle Entrate. Per una vita ho detto che l’obiettivo primario è la Giustizia Sociale e non rinuncio all’idea. Poi, quando divento più realista, tolgo l’attributo e mi tengo la Giustizia, quella gestita da magistrati coraggiosi, poliziotti e carabinieri che rischiano quotidianamente la pelle per combattere i mafiosi di ogni clan o scuola o partito. Sarà difficile praticare la legalità per cui la legge è uguale per tutti, ma per ora limitiamoci a far rispettare la legge che sta alla base della democrazia. Fatta Giustizia, messi da parte coloro che insidiano il futuro della società e delle istituzioni politiche e culturali, riprendiamo la battaglia per una maggiore giustizia sociale. Non basteranno i beni sequestrati ai mafiosi: bisognerà produrne altri. Al lavoro, calabresi!”
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