SAN GIOVANNI IN FIORE «Chi sa, parli. Siamo davanti a una tragedia collettiva che tocca nel profondo tutta la comunità locale. Tacere sui fatti significa impedire la ricerca della verità e l’affermazione della giustizia». È l’appello coraggioso di Caterina Perri, moglie di Serafino Congi, il 48enne morto all’antivigilia dell’Epifania su un’ambulanza diretta all’ospedale di Cosenza, attesa troppo a lungo nel Pronto soccorso di San Giovanni in Fiore.
Avvocato e docente, Caterina cerca con rara forza interiore di squarciare il velo del silenzio, di rompere una cappa di paura e omertà che ancora oggi ferma lo sviluppo civile e sociale della Calabria. La cittadinanza di San Giovanni in Fiore, di cui il marito era originario, aveva reagito con una fiaccolata imponente alla scomparsa di questo padre di famiglia, soccorso con enorme ritardo ad oggi non motivato dalle istituzioni sanitarie. È stato un ritardo assurdo ma vero, evidente e pesante. Irreparabile.
L’Asp di Cosenza ha avviato un’inchiesta interna sui soccorsi prestati al giovane, ma negli ambienti sanitari è difficile trovare qualcuno disposto a fornire indizi, indicazioni, notizie, particolari. Meglio non esporsi, non si sa mai. Preferibile, è la morale ricorrente, pensare ai fatti propri. Come nella peggiore tradizione meridionale, che spesso sovrasta i sentimenti popolari di vicinanza e solidarietà radicati nella storia mediterranea della Calabria. Caterina denuncia a chiare lettere una serie di atteggiamenti pilateschi, derivanti dal timore meccanico, generale, che riferendo elementi della vicenda si vada incontro a guai personali; da un’incapacità di vestire i panni altrui; da un misto di convenienza e indolenza che Fabrizio De André cesellò nei versi «per tutti il dolore degli altri è un dolore a metà, e alla parte che manca si dedica l’autorità».
Fuori nevica, le figlie di Caterina giocano con due cuginetti venuti da lontano. I bimbi girano per la casa e mostrano la loro innocenza, la loro distanza siderale dal sistema pubblico del Paese, gravido di inefficienze e disfunzioni, opportunismo e irresponsabilità. Nonostante tutto, si sente l’atmosfera del Natale passato. All’imbrunire, le luci delle luminarie esterne filtrano dalle finestre di una cucina-soggiorno bianca e radiosa. Caterina non cede alle lacrime, ha una battaglia da condurre, che non può essere soltanto personale ma deve trovare un sostegno unanime e concreto. Serafino non c’è più, ma doveva esserci. Purtroppo non è un incubo della notte, ma è la nuova realtà della sua famiglia: dura per la perdita subita, per come sopraggiunta, per gli interrogativi legati alle ultime ore di vita dell’uomo, «che – racconta la moglie – aveva preparato la Befana per le piccole e domenica 5 gennaio le avrebbe portate a sciare». «Serafino era un camminatore. Arrivava a piedi in ufficio, mentre io – continua la donna – usavo la macchina di famiglia. Lui rincasava a piedi e a piedi faceva la spesa, a Cosenza, dove ci eravamo stabiliti. Amava la Calabria e mai la descriveva in termini negativi: ne era un figlio orgoglioso. Felice di essere rimasto nella nostra terra, qui voleva costruire il nostro futuro. Mio marito nutriva una passione smodata per la Sila, il suo richiamo costante, e per San Giovanni in Fiore, il luogo dell’infanzia e dell’adolescenza. Anch’io sono sangiovannese. Ci eravamo conosciuti all’università, senza mai perdere il legame con le origini. Anzi, nel tempo libero lui veniva a San Giovanni e faceva l’orto in un terreno comprato dai propri genitori. Gli piacevano la natura e il paesaggio, il contatto con l’ambiente, la semplicità dei posti, delle persone, dei piccoli gesti. Con questa visione stavamo educando le nostre figlie».
Caterina si ferma un attimo e riprende: «La mattina dello scorso 4 gennaio, Serafino aveva voluto respirare l’aria del centro storico, in una passeggiata chilometrica verso l’Abbazia florense, per i vicoli circostanti e di ritorno sino a via Roma. Ora colpisce che questo suo affetto per il territorio si sia rivelato fatale». Poi la signora riflette: «La sanità pubblica non c’è più, questo è il punto. Allora sei spinto, costretto a stipulare un’assicurazione privata. A meno che non ci sia uno scatto d’orgoglio, indipendente dalle bandiere politiche, e non si pretendano cure uguali per tutti e l’etica della responsabilità dei sanitari verso i pazienti. Per inciso, vorrei ricordare che, dato il tipo di emergenza, nel pomeriggio dello scorso 4 gennaio era stata contattata una dottoressa del Pronto soccorso, rimasta a casa sua perché non era di servizio. Disservizi, lassismo e indifferenza sono inammissibili nei luoghi di cura, dunque devono cessare. Altrimenti, puoi avere danni, ferite insanabili». «Questa è la realtà che vediamo e viviamo, anche se – sottolinea la signora – paradossalmente resta nell’ombra per via dell’accettazione passiva di massa, dell’abitudine all’immobilismo, a lavarsene le mani. C’è bisogno di sapere come è andata e perché Serafino non ha avuto il soccorso tempestivo che prevedono i protocolli sanitari, perché non è stato proposto il cosiddetto “rendez-vous”, cioè l’incontro a metà strada fra l’ambulanza del trasporto e il medico disponibile da altra sede. Tra l’altro va chiarito perché i medici non ci hanno mai parlato dell’elisoccorso e non hanno prospettato l’ipotesi di attivarlo».
«San Giovanni in Fiore – osserva la donna – ha dato un segnale forte, con la fiaccolata organizzata dai Fiori Florensi. E l’ha dato tutta la Calabria, con la presenza di altre espressioni della società civile, tra cui l’associazione di Alfonso Scutellà, papà dell’indimenticabile Flavio (vittima di malasanità, nda). Alla comunità sangiovannese e della nostra terra io e la mia famiglia siamo e saremo grati: è stata una manifestazione di umanità e civiltà esemplari». «Ora c’è la necessità stringente di cambiare rotta, di impegnarsi – continua la signora – perché non si ripeta più quanto ci è successo».
È potente lo slogan «siamo tutti Serafino», ideato dai Fiori Florensi e impresso in uno striscione esposto finanche allo stadio di Cosenza. «Significa che ci troviamo tutti sulla stessa barca», spiega Caterina. «Allora – conclude – dobbiamo remare insieme, per restituire speranza e dignità ai nostri figli, ai nostri genitori, ai nostri nonni». (redazione@corrierecal.it)
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