A metà dicembre del 1905 a Rautjarvi, in Carelia, regione della Finlandia al tempo confinante con l’agonizzante Impero Russo e nel 1919 divenuta Repubblica indipendente, nacque, da Juho Hayha e Katriina Vilko, entrambi contadini, il loro settimo figlio, a cui venne dato il nome di Simo. Dopo tre anni, la signora Hayha diede alla luce il loro ultimogenito, Mikko, giungendo così al numero di otto figli, cinque maschi e tre femmine. Un numero così elevato era al tempo del tutto normale, e non solo in Finlandia. Tanti figli erano visti come una benedizione, in quanto il lavoro dei contadini in un terreno duro e per gran parte dell’anno innevato, aveva necessità di molte braccia maschili. Inoltre, la conduzione della fattoria con tutte le incombenze quotidiane, dalla cottura del pane alla pulizia della casa, nonché dalla mungitura delle mucche, alla pastura da dare ai buoi da lavoro, ai suini, alle galline, alle anatre e ai conigli, necessitava di un’ attiva presenza femminile. Sebbene già a dodici anni Simo avesse le sembianze fisiche quasi da adulto, lui e Mikko, l’ultimogenito, per volere del padre erano esentati dal lavoro nei campi e venne loro assegnato un altro compito, altrettanto importante per le necessità alimentari della famiglia Hayha. Infatti essendo la fattoria circondata da foreste, laghi e fiumi, in cui abbondavano alci, volpi e lepri artiche, scoiattoli, picchi, cigni selvatici, lucci, trote, persici, coregoni ecc…, a loro era riservato l’attività di cacciare e pescare. In questo, c’era anche un’altra ragione che spinse il capofamiglia a questa scelta. Mikko, il figlio più piccolo, era nato dopo un parto rischiosissimo e molto travagliato e purtroppo portava su di sé i segni di questo spiacevole evento. Infatti si muoveva goffamente e spesso senza la giusta coordinazione degli arti superiori, faceva fatica ad articolare fluidamente il linguaggio e a volte sembrava assentarsi dal contesto. Nelle intenzioni di Juho Hayha, far affiancare al piccolo il fratello maggiore nelle attività in cui Simo era quotidianamente impegnato, avrebbe potuto essere una buona terapia per dotare Mikko di un po’ di scioltezza fisica, attenzione nella difficile attività della caccia e conseguente presenza a se stesso. Del resto, l’ultimogenito era del tutto affascinato dal fratello maggiore e, sia che si trovassero nei boschi o meno, gli stava costantemente attaccato. Tanto affetto era più che ricambiato da Simo, che faceva di tutto per abituarlo a muoversi veloce e silenzioso nella caccia e per insegnargli a sciare sempre più scioltamente, nonché per addestrarlo in tutti i trucchi per l’uccellagione e la pesca. Non mancavano nemmeno regolari esercitazioni di tiro con il Mosin-Nagant modello 28/30 di Simo, attività che appassionava enormemente Mikko. Questo sodalizio sembrava funzionare a meraviglia e, nonostante i limiti fisici e nel linguaggio, Mikko migliorò parecchio negli anni successivi, anche se, a parte Simo, pochi se ne accorsero, venendo considerato ancora, sia dai familiari che dai conoscenti o dagli estranei, eufemisticamente “debole”o, peggio, “malato”. Il figlio minore degli Hayha sembrava non far caso a tutto ciò, o forse capiva tutto, ma non era interessato alle opinioni degli altri, familiari o meno che fossero. Per lui, la più grande ragione di vita risiedeva nelle lunghe giornate all’aria aperta in compagnia di Simo e in tutto ciò che questi quotidianamente gli insegnava. Tale periodo di felicità, finì però per Mikko bruscamente. Nel 1926, infatti, il fratello maggiore, compiuti i 21 anni, fu chiamato a prestare il servizio militare obbligatorio, che in Finlandia durava un anno, e fu costretto di necessità a lasciare la fattoria. Durante il periodo di leva, Simo si distinse per il rigore nell’eseguire gli ordini impartiti, per la resistenza fisica, per l’abilità di sciatore e, soprattutto in quella di utilizzare al meglio il Krag-Jorgensenn calibro 6,5 x 55 mm.,Il fucile d’ordinanza dell’esercito, tanto da essere congedato come tiratore scelto. Tornato a casa sul finire del ’27, Simo riprese la vita all’aria aperta di sempre, cacciando e pescando con l’inseparabile compagnia del felicissimo Mikko, che ormai aveva compiuto i 19 anni e, per le malferme condizioni di salute, era stato precocemente scartato alla visita di leva. Ad eccezione del matrimonio nel 1929 della sorella ventiseienne Saara (che fino ad allora tutti i conoscenti davano oramai per zitella a vita, come le altre due figlie maggiori), con il falegname Aino Virtanen, per i successivi dieci anni, per la famiglia Hayha non accadde nulla degno di essere riportato. Ma per Simo, come per tutta la Finlandia, la tempesta era in agguato. Il 30 novembre 1939, infatti, prendendo a pretesto un presunto bombardamento con vittime ad opera dei finlandesi a Mainila in territorio sovietico, probabilmente orchestrato ad arte da questi ultimi, l’ URSS invase la Finlandia con quasi 400.000 soldati, dando cosi inizio alla cosiddetta “Guerra d’Inverno”. Probabilmente, le vere ragioni per le quali Stalin diede l’ordine di invasione in modo così massiccio (tenendo conto che la popolazione finlandese era di solo 3,8 milioni di abitanti), erano quelle di creare una zona cuscinetto tra l’Unione Sovietica ed il resto d Europa, e la conquista della Finlandia ben si adattava a questo scopo, nonché di salvaguardare da possibili invasioni future la città di Leningrado (oggi San Pietroburgo) non distante dal confine finnico. Mentre in Europa era da poco scoppiato il Secondo Conflitto Mondiale, dal quale l’URSS era conscia di essere solo temporaneamente al sicuro, grazie al patto di non aggressione reciproca fra Unione Sovietica e Terzo Reich, Molotov-Von Ribbentrop, accadde in Finlandia un fenomeno per i sovietici inatteso e del tutto imprevedibile. Infatti Carl Gustavf Emil Mannerheim, Maresciallo di Campo, deputato e futuro Presidente della Repubblica, indiscussa figura simbolo della imminente resistenza finlandese, diede ordine agli abitanti di rispondere “con tutti i mezzi” all’occupazione straniera. Tale posizione fu subito fatta propria dall’intera popolazione, che si mobilitò in tutti i modi per bloccare l’avanzata delle truppe di Stalin. Nonostante i 130.000 effettivi dell’esercito finlandese, saliti a circa 160.000 grazie ai richiamo al fronte di chi aveva effettuato il periodo di leva, la resistenza della popolazione mobilitatosi in massa dopo l’appello del futuro Presidente, fu un evento straordinario che stupì il mondo intero. Uomini, donne e anche ragazzi, contribuirono ognuno per la propria parte, alla tenace difesa del territorio nazionale. I finlandesi infatti, adottarono in massa azioni di guerriglia sfruttando la perfetta conoscenza del territorio, che presentava foreste dense e laghi ghiacciati, i quali, rivelandosi un ostacolo formidabile per le manovre dei blindati sovietici, permetteva ai resistenti di non andare mai allo scontro frontale con il nemico, ma a ricorrere all’efficacissima tattica della “motta” (traducibile con “gruppo” o “mucchio”). Essa consisteva nel consentire alle truppe sovietiche di avanzare in profondità nel territorio, fin quando non si trovavano bloccate da foreste o corsi d’acqua. A questo punto i finlandesi, accerchiato il nemico stretto, appunto, in “gruppo”, attaccavano da più direzioni, causando perdite ingentissime agli avversari e costringendo Stalin ad aumentare progressivamente il numero dei soldati sul campo, fino ad arrivare ad impegnare nel conflitto quasi 800.000 unità. Due ulteriori e micidiali strategie di combattimento dei finlandesi erano l’estrema rapidità dei movimenti, operati esclusivamente con slitte o sci, bloccando sistematicamente nel terreno, quando questo era particolarmente innevato e impervio, gli inseguitori e decimandone le truppe. Ma soprattutto l’attività più efficace era quella del cecchinaggio, con la quale, nascosti nelle foreste conosciute palmo a palmo, i tiratori finnici facevano strage di nemici. A questo proposito si distinse un uomo che a guerra finita divenne addirittura “Eroe nazionale” per gli eccezionali risultati conseguiti. Nessuno in realtà durante il conflitto lo vide mai di persona, ma dalle modifiche fatte fare a Viipuri, in Carelia, al calcio del suo MosinNagant 28/30, in molti lo identificarono con Simo Hayha, tiratore scelto richiamato alle armi nel 1939 dall’esercito finlandese. La sua tattica si basava sulla perfetta conoscenza del territorio acquisita negli anni giovanili, nella velocità degli spostamenti e nel mimetismo perfetto. Infatti era solito vestirsi completamente di bianco e, scelta la posizione, appostarsi pazientemente anche per ore, e appena individuato il nemico colpirlo mortalmente con il suo fucile. Gli obiettivi potevano essere anche multipli, infatti il Mosin-Nagant 28/30 aveva un caricatore di cinque proiettili e permetteva di sparare in rapida successione lasciando a terra anche altrettanti soldati nemici. Appena centrati i bersagli, il tiratore si spostava immediatamente sugli sci e nel giro di qualche minuto era di nuovo pronto a fare ancora una o più vittime. Un’altra sua caratteristica che lo differenziava dai normali cecchini, era quella di colpire bersagli a distanze incredibili, anche 300 metri, tanto che chi era vicino alla vittima non era in grado di capire neanche da che parte fosse giunto il colpo. L’insieme di queste prodezze terrorizzava letteralmente i nemici, tanto che evitavano al massimo di trovarsi allo scoperto e dando al misterioso tiratore il significativo nome di “Morte bianca”. Poteva anche capitare che dopo lunghe ore di appostamento mimetizzato nella foresta, la Morte bianca intercettasse un numero consistente di soldati sovietici, il cui numero superava le cinque cartucce del suo Mosin-Nagant. In questi casi ricorreva alla sua seconda arma, una mitragliatrice leggera Lahti Saloranta M/26 , il cui caricatore da 75 colpi faceva strage di sovietici, posizionati anche ad oltre 100 metri di distanza. Nel conflitto, durato meno di cinque mesi, la Morte bianca raggiunse una cifra tale di bersagli centrati che lo rese il tiratore più letale della storia, tanto che sue tecniche di cecchinaggio sono studiate e analizzate ancora oggi da esperti militari di tutto il mondo. Infatti le sue vittime accertate sono oltre 500 e tenendo conto che la guerra si protrasse per solo 102 giorni, la sua macabra media fu, più o meno, di 35 uccisione di nemici alla settimana. Per gli eccezionali risultati conseguiti, la Morte bianca fu considerato sempre di più un mito per il popolo finlandese, al pari del futuro deputato Mannerheim o dei generali Siilasvuo e Ohquist, tutte figure-simbolo della Guerra d’Inverno, costrette a battersi con risorse umane e militari limitate contro un nemico assolutamente più forte, ma che pagò il conflitto lasciando sul terreno, secondo le stime degli storici, quasi 400.000 morti, a fronte delle 25.000 o 30.000 vittime finlandesi. Seppur continuando la tenacissima resistenza nazionale, la netta differenza degli eserciti sul campo, con quello sovietico dotato di inesauribili risorse umane e materiali, finì però col costringere la Finlandia, tramite la mediazione norvegese, ad avanzare, a febbraio del 1940, trattative di pace, sebbene del tutto onorevoli e con complessivamente ragionevoli perdite territoriali. Il segretario del PCUS Stalin, considerata la conduzione del conflitto estremamente difficile e la carneficina a cui il suo esercito era andato incontro, accolse sostanzialmente le proposte di pace e in poche settimane, accordatosi dopo rapidi negoziati sulle concessioni territoriali , il 12 marzo 1940 i contendenti giunsero a sottoscrivere la “Pace di Mosca”, con la quale la Finlandia cedeva all’URSS parte della Carelia, Viipuri la seconda città più grande del Paese, alcune isole del Golfo finnico e la Penisola di Rybacij. Nonostante le perdite territoriali, pari a circa il 15 per cento del territorio Finlandese, ed alcune di oggettiva importanza strategica, il Paese riuscì comunque a mantenere la sua indipendenza, dimostrando al mondo intero come la resistenza di un intero popolo potesse avere la meglio su un aggressivo e vorace gigante militare quale l’URSS. Durante il periodo delle trattative di pace, si verificò comunque un drammatico episodio che ebbe come protagonista passivo la Morte Bianca. Il 4 marzo del 1940 infatti, una piccola pattuglia composta da tre soldati sovietici riuscì ad individuare la posizione di due cecchini in una foresta e avvicinatisi ad essi con estrema cautela, scaricarono sui due finlandesi un intero caricatore da 35 colpi di una mitraglietta leggera PPSh-41. I sovietici, senza saperlo, avevano individuato la Morte Bianca, composta non da una ma da due persone. Il primo era Simo Hayha, che fu colpito alla mandibola, mentre il secondo era il fratello minore che fu falciato da una scarica di colpi al torace. Simo reagì fulmineamente e con la Lah ti Saloranta M/26 di Mikko vuotò l’intero caricatore sui tre nemici uccidendoli sul colpo. Poi si getto sul corpo del fratello, cercando di fermare le forti emorragie causate dai proiettili, ma si rese presto conto che per Mikko, la Morte Bianca, non c’era più nulla da fare. Sì, perché il vero e infallibile cecchino non era lui come tutti credevano, ma Mikko. Proprio per questo, data la sua difficoltà ad articolare bene la spalla, Simo aveva fatto modificare il calcio del suo Mosin-Nagant. Infatti, come molti sanno, la Natura è spesso imperscrutabile ed agli esseri apparentemente più deboli, dona capacità ineguagliabili, come molti geni artistici apparentemente “malati” hanno spesso dimostrato. Il “dono” di Mikko era appunto l’infallibilità nel tiro al bersaglio, qualità che aveva dimostrato fin da piccolo nei boschi di Rautjarvi, ma che i due fratelli avevano tenuto per loro. Allo scoppio della guerra però, l’ultimogenito Hayha aveva voluto, come sempre fatto fino ad allora, seguire il fratello, dimostrandosi nel tempo il più letale dei cecchini che la storia abbia mai conosciuto. Simo, sepolto nel bosco Mikko, luogo dove lui aveva sempre amato trascorrere le giornate, tornò a casa ferito e, una volta guarita la mandibola, ed oramai in grado di parlare non rivelò mai il segreto di Mikko, al quale probabilmente nessuno avrebbe mai creduto, e anche a guerra finita continuò ad essere considerato lui la Morte Bianca e trattato da tutti come un Eroe nazionale. Ed a chi gli chiedeva come avesse appreso una mira così infallibile, rispondeva semplicemente “pratica”.
x
x