È trascorsa poco più di una settimana dall’insediamento di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti e si cominciano a delineare i contorni della nuova “Età dell’oro” americana, una “nuova entusiasmante era di successo nazionale” come riferito dallo stesso Presidente, che potrebbe scardinare molti aspetti dell’ordinamento americano e internazionale. Nell’inauguration day dello scorso lunedì 20 gennaio abbiamo assistito, in Campidoglio, non soltanto all’insediamento del 47° Presidente degli Stati Uniti, il più anziano di sempre, ma anche all’incoronazione di un nuovo ‘Presidente imperiale’ che, paradossalmente, ha giurato negli stessi luoghi che quattro anni prima i suoi sostenitori avevano devastato e dissacrato per impedire la ratifica della vittoria di Biden. I risultati elettorali del 5 novembre hanno portato a una situazione senza precedenti: il partito del Presidente ha ottenuto la maggioranza sia nella Camera dei Rappresentanti che nel Senato e anche la Corte Suprema ha da qualche anno una maggioranza conservatrice (6 giudici conservatori e 3 progressisti).
Inoltre, Trump è riuscito negli ultimi anni, – l’‘esilio forzato’ secondo il tycoon –, a trasformare il partito Repubblicano, azzerando la sua anima liberal-conservatrice e identificandolo prevalentemente con il movimento radicale MAGA (Make America Great Again) completamente allineato sulle posizioni trumpiane. Questa concentrazione di potere in un’unica persona, che rimarrà tale almeno fino alle elezioni di midterm del novembre 2026, solleva questioni fondamentali riguardanti il futuro della democrazia americana, ritenuta in passato così forte da divenire un modello esportabile. A subirne contraccolpi potrebbero essere, infatti, sia il principio della separazione dei poteri, tanto orizzontale (i tre poteri dello Stato) quanto verticale (il sistema federale), sia l’equilibrio istituzionale che trova fondamento nei checks and balances (controlli e contrappesi) reciproci degli organi costituzionali. La dimostrazione della nuova direzione del potere presidenziale si è avuta nel discorso ‘dirompente’ e anche grottesco di investitura che è stato un vero e proprio comizio elettorale contenente alcune proposte che hanno suscitato non solo perplessità ma anche scherno, quali la proposta di rinominare il Golfo del Messico come “Golfo d’America”, generando reazioni ironiche anche di alcuni presenti, come Hillary Clinton.
Al discorso sono seguiti i primi atti presidenziali con la firma di più di 100 decreti esecutivi, adottati senza interpellare il Congresso, con i quali ha, tra l’altro, disdetto Trattati internazionali, dichiarato lo stato di emergenza per i flussi migratori, graziato gli insurrezionalisti, cambiato rotta nelle politiche ambientali, energetiche e sanitarie, sollevato dagli incarichi numerosi funzionari federali, eliminato i cosiddetti programmi DEI (diversità, equità e inclusione) e cancellato lo ius soli (decreto già sospeso da un giudice federale di Seattle per manifesto contrasto con il XIV emendamento della Costituzione). Se i primi decreti presidenziali sono stati firmati in Campidoglio, gli altri, invece, nella Capitol One Arena tra il tripudio dei suoi sostenitori e non nella sede istituzionale della Casa Bianca. Nel ‘comizio’ ha ribadito che nell’attentato subìto durante la campagna elettorale è stato salvato da Dio. Il salvataggio divino ha avuto il preciso significato dell’affidamento a lui della missione di risollevare le sorti degli Stati Uniti dopo il declino degli ultimi anni e di riportare gli americani nell’“Età dell’oro”, rifacendosi alla teoria del ‘Destino manifesto’ coniata nella prima metà dell’800 per giustificare l’espansione territoriale degli Stati Uniti sul continente americano.
Il declino degli ultimi anni è stato attribuito alle politiche del Presidente Biden, seduto vicino a lui in Campidoglio e che, rispettando il galateo istituzionale, lo aveva accolto poco prima alla Casa Bianca augurandogli il tradizionale ‘Welcome home’, come, invece, non aveva fatto Trump 4 anni fa, in partenza per la Florida prima dell’insediamento del nuovo Presidente. Al di là dei riti della democrazia degli Stati Uniti, la seconda Presidenza di Trump si è subito differenziata rispetto alla prima, perché si è voluto dare il segnale dell’inizio di una nuova era politica, di un vero e proprio cambio regime che appare, piuttosto, come un ricordo sbiadito e inquietante dell’“età dorata” di fine ottocento, quella “Gilden Age” dei magnati come John D. Rockefeller e Andrew Carnegie, caratterizzata da un periodo di immensa ricchezza ma per una piccola élite. Non si tratta solo delle esagerazioni verbali del nuovo Presidente, ma del programma politico orientato a far saltare molte delle misure di contenimento dei poteri presidenziali, ad abolire molti limiti ai grandi potentati economici, soprattutto nel settore informatico e della comunicazione, i cui leader erano presenti nel Congresso per ‘omaggiare’ il nuovo Presidente.
La concentrazione dei tecno-oligarchi vicini al nuovo Presidente, dal proprietario di Tesla e SpaceX Elon Musk, al CEO di Meta Mark Zuckerberg, dal CEO di Alphabet Inc. Sundar Pichai al fondatore di Amazon Jeff Bezos è stata segnalata da Biden, nel suo ultimo discorso prima di lasciare l’incarico, come un rischio effettivo per la democrazia americana, in quanto potrebbero seppellire gli americani (e non solo gli americani) “sotto una valanga di disinformazione e informazioni errate che consentono l’abuso di potere”. Musk, ritenuto da molti il vero co-presidente, ha dichiarato, al contrario, che la tutela della libertà di espressione si ottiene togliendo i filtri di controllo ai social, in modo che la diffusione delle informazioni non trovi più ostacoli. Le contraddizioni che vengono dall’altra parte dell’Atlantico ci mostrano che stiamo attraversando realmente un “tornante della storia”, come ha messo in evidenza il Presidente Mattarella qualche giorno fa a Messina. Le crisi e le emergenze che si susseguono devono far riflettere ancora di più i leader degli Stati europei che singolarmente non saranno in grado di fornire risposte adeguate alle “sfide del presente”. In sintonia con Mattarella, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato a Davos che l’Europa è “pronta al cambiamento” e accetta la sfida, cercando nuove opportunità ovunque si presentino.
Nelle sue parole, alle quali si aggiungono anche quelle della Presidente della BCE, Christine Lagarde, sembra esserci la consapevolezza di dover cogliere l’occasione per fare finalmente progressi importanti nel rafforzamento del processo di integrazione europea allo scopo di tornare a essere un soggetto in grado di giocare un ruolo importante nello scenario geopolitico globale. In fondo, l’analisi di Mario Draghi nel suo Rapporto sul futuro della competitività, presentato agli organi dell’UE nel settembre del 2024, prevedeva che l’UE agisse come soggetto unitario in politica estera, di sicurezza, difesa ed energia per ritornare a essere protagonista nelle le tre grandi trasformazioni in atto: digitalizzazione, decarbonizzazione e cambiamenti geopolitici. In tale contesto, la Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, l’unica dei capi di governo europei invitata alla cerimonia di insediamento di Trump e con un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione americana, deve scegliere se vuole sostenere una maggiore integrazione dell’UE, affinché possa giocare un ruolo di rilievo nello scenario internazionale, o se vuole essere una ‘pedina’ del divide et impera americano. Il banco di prova importante sarà la posizione italiana sulla grande questione del superamento del diritto di veto dei singoli Stati, lo strumento istituzionale della divisione e della frammentazione dell’UE, o la conferma della permanenza italiana nel gruppo di Stati che sostiene il voto a maggioranza qualificata nella politica estera e di sicurezza comune, con l’intento di rendere l’UE un attore internazionale autorevole e non un semplice ‘vaso di coccio’ in mezzo ai ‘vasi di ferro’.
*Docente di Diritto Pubblico Anglo-americano, Università della Calabria
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