Quando la ‘ndrangheta Cosentina scoprì il gaming, un «momento storico»
Il «dovere di contribuzione», la «scheda clone» e la decisione di imporre una tassa a coloro che «gestivano le attività di giochi»

COSENZA Il gaming muove in Calabria circa 4 miliardi di euro. Le slot prese d’assalto dai giocatori in alcuni casi riempirebbero anche le tasche della criminalità organizzata. E’ quanto emerso nel corso del procedimento scaturito dall’inchiesta denominata “Reset“. La pubblica accusa – che di recente ha concluso la requisitoria – ha inserito nella ricostruzione dell’attività di indagine il robusto capitolo dedicato al settore che vedrebbe coinvolti alcuni imputati.
Secondo la ricostruzione proposta dall’ufficio di procura ci sarebbe «un collegamento tra quattro gruppi imprenditoriali» legati da «un rapporto di mutuo scambio, su una logica affaristica esistente tra l’imprenditoria che si occupa dell’attività, dei giochi, la consorteria e alcuni esponenti della Confederazione criminale». Approfondendo la discussione in aula dei pm Vito Valerio e Corrado Cubellotti, è possibile cristallizzare il presunto modus operandi che regola il business. Da una parte, c’è chi versa «un contributo alla cosiddetta bacinella della Confederazione (ne abbiamo parlato qui), dall’altra invece c’è chi esercita una sorta di «costrizione degli esercenti, cioè di coloro che vogliono installare macchine da gioco, ad istallare quelle dei soggetti indicati dalla criminalità organizzata».
Il presunto sistema
Come funziona il presunto sistema legato alle slot machines? Per chi indaga, «la scheda, quella autorizzata, quella caratterizzata dal sigillo dei monopoli dello Stato è, in
realtà, doppiata dall’inserimento di una scheda clone», che «consente di scaricare parte delle giocate su di essa, facendo entrare i relativi flussi di denaro nella disponibilità dei soggetti ma sottraendoli al provider». Fondamentali le confessioni rese da alcuni collaboratori di giustizia che hanno restituito una ricostruzione utile agli investigatori. Nicola Femia, nel corso dei suoi interrogatori spiega le origini del rapporto con alcuni imputati coinvolti nel gaming ma soprattutto suggerisce un elemento importante. Il collaboratore di giustizia, infatti, come ribadisce il pm in sede di requisitoria «fu lui, per la prima volta, a spiegare, a introdurre, a vendere la doppia scheda e quindi il meccanismo truffaldino». E’ un altro pentito, Francesco Galdi a soffermarsi sul tema dei giochi e in particolare su alcuni soggetti che prenderebbero parte alla gestione di queste agenzie di scommesse per poi destinare «i proventi della loro attività, così come quella della gestione dei video poker, nella bacinella comune».
Un passo importante, l’estorsione
Secondo l’accusa il business illegale sarebbe sorretto dalla esistenza di rapporti tra la criminalità organizzata, gli esercenti e i gestori. C’è un momento storico da segnalare con il circoletto rosso che diventa spartiacque nell’attività connessa alla ricostruzione dell’accusa. Ad introdurre il tema è il pentito Violetta Calabrese che ricorda della volontà espressa da Michele Bruni a Francesco Patitucci e un di imporre una tassa «a coloro che gestivano queste attività di giochi». Il collaboratore di giustizia utilizza un termine specifico “taglieggiamento”.
E’ il pm Vito Valerio, nel corso del dibattimento, a chiedere al collaboratore di giustizia di specificare alcune dichiarazioni rese in merito al presunto pagamento di una “tassa” a favore dei clan. Il pubblico ministero si sofferma a lungo su questo passaggio e sul “significato” di estorsione. «Quindi l’estorsione intesa come atto costrittivo a subire la dazione, a subire la pressione in vista dell’ottenimento dell’ingiusto profitto non riguardava i noleggiatori che operavano in virtù di un accordo con la criminalità organizzata e che erano tenuti in quanto gestivano l’attività in modo truffaldino e in quanto spesso e volentieri gestivano anche l’usura (…), non erano tenuti a versare perché vittime di estorsione, ma erano tenute a versare in virtù di un dovere di contribuzione in quanto si occupavano di un segmento di attività illecite che era considerato proficuo dalla criminalità organizzata».
In buona sostanza, l’accusa prefigura l’esistenza di un meccanismo estorsivo «non a monte, ma a valle» e «riguarda gli esercizi commerciali che subivano l’imposizione di quelle macchine da gioco». (f.benincasa@corrierecal.it)
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