‘Ndrangheta, il ritorno del boss Pino Piromalli a cui tocca ridare autorevolezza alla cosca. «Ora il capo lo faccio io»
Il boss, scarcerato dopo 22 anni, ritrova una famiglia remissiva e impaurita a cui cerca di ridare autorità. «Ho sempre vissuto così, non posso cambiare vita»

LAMEZIA TERME Amarezza e delusione. Questi i sentimenti che hanno accompagnato Pino Piromalli una volta scarcerato nel 2021. Un ritorno in libertà, quello di “Facciazza”, rovinato dopo aver constatato che la cosca, durante la sua lunghissima assenza forzata, non era stata guidata con tenacia e autorevolezza mafiosa. Quella per lo meno che lui si sarebbe aspettata. È uno degli elementi emersi dalla corposa inchiesta ribattezzata “Res Tauro” condotta dalla Distrettuale antimafia di Reggio Calabria e che ha portato all’arresto di 26 persone, tutte presumibilmente legate alla potente cosca Piromalli di Gioia Tauro.
«A Gioia la musica la cantiamo noi»
Durante la carcerazione, dunque, la cosca Piromalli avrebbe tenuto un atteggiamento tale da aver consentito agli imprenditori “forestieri” di lucrare sul territorio gioiese, quasi del tutto indisturbati. Scatenando, una volta scoperto, il disappunto di Pino Piromalli. «(…) gli ho detto “come si azzardano che qualcuno ha passato il limite di Gioia?” (…) a Gioia ci sono io… fino a che campano… il più brutto dei Piromalli la musica la cantiamo e la guidiamo noi…». Così Piromalli era stato costretto a «ripristinare l’ordine mafioso violato, riattualizzando la regola aurea che ogni cosca comanda sul suo territorio. Concetto ribadito in modo chiaro: «I rosarnesi, i rizziconesi, i palmitani e tutti gli altri… sanno che da Gioia non si può passare, le regole sono cambiate… ne parlano nelle piazze…».
La “confusione mafiosa”
La frustrazione e la delusione di Pino Piromalli emergono da una sua teoria – annota ancora il gip nell’ordinanza – secondo cui i veri colpevoli di questa “confusione mafiosa”, riconducibile ai rapporti deteriorati tra i suoi fratelli ed il figlio Antonio, erano i fratelli i quali – a suo dire – non si erano assunti da leader della cosca «l’onere dell’assistenza ai detenuti» così come, invece, era accaduto a parti inverse. Il boss puntava il dito anche contro il nipote. Secondo lui, infatti, tra i soggetti che avevano avuto il potere di traghettare la cosca durante la sua assenza, ma che Io avevano fatto in modo non equo e ai suoi danni, c’era proprio Gioacchino Piromalli. «(…) se ti eri comportato bene ti ascoltavo, non ti sei comportato bene, vai e vendi pesci se vuoi… ti metti un magazzino, lo puoi fare, ma altre cose non ne fa nessuno fino che c’è Pino Piromalli, nessuno!».
«Ora faccio io il capo, fino in fondo»
Più in generale per il boss era comunque scandaloso l’atteggiamento remissivo tenuto, medio tempore, dai vertici in libertà, «i quali avevano preferito mantenere un profilo più basso per non rischiare di essere arrestati», annota il gip nell’ordinanza. Un’amara constatazione considerato il suo “stile di vita”. «(…) mio zio Peppino diceva “chi nasce tondo non muore quadrato, Pineddu… no!?” So che questo mi porta all’arresto, no? Però se ho vissuto una vita in questa maniera, non posso cambiare vita!». Tale stato di cose era cambiato da quando Giuseppe Piromalli, venuto a conoscenza dei comportamenti avversi dei fratelli Gioacchino e Antonio, deliberava la sua indiscussa leadership mafiosa: «(…) faccio io il capo! ora lo faccio fino in fondo però». (g.curcio@corrierecal.it)
(Foto Corriere della Sera)
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