Alta Valle del Raganello. Il mondo perduto – VIDEO
Cronaca di una passeggiata nel cuore del Parco nazionale del Pollino, sul versante calabrese, tra case di pietra, pascoli e panorami unici

Il sole del mattino s’irradia sulla terra, benevolo e caldo. Brevi folate di vento scivolano sulle pendici, sulle creste, sui valichi delle montagne che fanno da corona alla valle. Tracce di vita antica. Nel cielo roteano rapaci. Poche case di pietra, orti, coltivi, pascoli. Contadini e pastori ancora conducono vite ignorate e ribelli. Silenzio. Solitudine. Siamo in un “mondo perduto”. Come nel romanzo di Conan Doyle. Mi aspetto che da un punto di questo gigantesco catino oro-idrografico sbuchi un dinosauro. E invece, solo qualche vacca, che bruca l’ultima erba estiva. Il suo scampanare lento è il suono del tempo che passa ma che qui non passa del tutto.
Domenica di metà settembre. La mia “zampa” destra, da qualche mese acciaccata, sta migliorando dopo le cure. La gioia di 45 anni di camminate in montagna deve pure avere un costo! Ed il mio corpo invecchia. Manco dal Pollino da novembre dello scorso anno, prima dei dolori: tre bellissime e dure escursioni autunnali. Poi l’assenza. E l’ansia di capire se ancora potrò camminare in montagna.
Rimaniamo sul versante calabro, visto che ho a disposizione il mio vecchio fuoristrada: la seconda parte della strada che sale da Civita verso la Falconara è molto malmessa. Ed è un peccato: per chi vive lassù, l’alta valle del Raganello, e per chi vorrebbe accedere al “cuore del parco” senza essere costretto a girare dalla Basilicata. A Colle Marcione si valica e si cambia panorama. Da qui, per il lungo percorso stradale che sale alla Falconara e scende poi a San Lorenzo Bellizzi, è tutto un susseguirsi di strepitosi punti di partenza di itinerari a piedi.
Lasciamo l’auto alla pineta di Boccatore, nove km più avanti, e proseguiamo a piedi. Dinanzi a noi l’imponente parete est di Serra delle Ciavole. Con le sue grandi placche di roccia, i canaloni, le pietraie, le cenge erbose, i pini loricati più isolati e segreti della zona. E persino una cascata stagionale che d’inverno ghiaccia e può essere risalita con piccozze e ramponi. Ricordo un’escursione solitaria in risalita di quel versante, diciotto anni fa, qualche giorno prima che nascesse la mia seconda figlia. Diciotto anni passati in un attimo! Viviamo – se il Buon Dio ci mantiene in salute – come non dovessimo invecchiare mai, non morire mai. Ma c’è sempre un momento, nelle nostre vite, in cui, anche senza mali seri, qualcosa ci ricorda che non è così. È in quel momento che i pensieri rimossi emergono dall’inconscio. E ci si deve adattare, si deve agire, per non perdere il senso, la ragione stessa del nostro stare al mondo.
Camminiamo nella solitudine più assoluta. Qui non si incontrano le comitive vocianti degli accessi lucani. Il cammino può sciogliersi in un pellegrinaggio, in una preghiera. E noi siamo solo in due. Due frati pellegrini che compiono un cammino di ricerca e di fede. Verso “il grande mistero”.
La radura obliqua, sulla sinistra della quale sopravvive Casino Toscano, a 1650 metri di quota: sarebbe un perfetto rifugio. Entriamo per un lungo tratto nella faggeta costellata di massi, percorrendo ora la vera mulattiera. Intersezione sul sentiero che proviene da Lago Duglia, in Basilicata, abbeverata alla sempre attiva sorgente del Raganello, viste ripetute su scorci di Basilicata, ed eccoci alla Grande Porta del Pollino. Nessun’altro percorso offre una veduta così improvvisa e magnifica sul “cuore del parco”. Una quindicina di anni fa, una notaia fiorentina che aveva girato mezzo mondo e che era salita sin quassù dietro a me, appena si aprì il panorama disse fra sé e sé, come non si capacitasse: “… ma questo è il posto più bello che abbia mai visto …”. E rimase per qualche tempo in uno stato d’estasi.

Girovaghiamo felici fra prati, pietre, vedute. Percorriamo la cresta di Serretta della Porticella, in mezzo ai grandi pini loricati, la conifera simbolo del Pollino, che sopravvive oltre il limite della vegetazione arborea, unica specie d’alberi giganteschi. Sino ad affacciarci sulla sella successiva e sull’erta che sale su Serra di Crispo, al “Giardino degli Dei”. Poiché il mio piede comincia a lanciare segnali, evito di prolungare ulteriormente l’escursione e torniamo indietro per la stessa via.
Scendiamo lentamente, sino alla visione della Falconara, di Sant’Anna, delle timpe di S. Lorenzo, di Cassano, di Porace, incorniciate fra querce rade e brillanti bacche di biancospino e di rosa canina. È tutto così bello ed emozionante che anche il piede, che pure duole, non è poi un male così grande. Forse perché mi convinco che posso guarire. Forse perché sono riuscito ad accettare anche quest’ennesimo segno del destino. Gli animali al pascolo sono ancora lì. Un velo di foschia ricopre il cielo. Eccoci all’auto. Percorriamo all’inverso la stradina. Il sole cala dietro il crinale della Manfriana. La valle si oscura. In una delle masserie, i pastori stanno macellando un animale all’aperto. Un gesto ieratico, che non intendiamo profanare con la nostra invadenza. Non vediamo oggi, arrossarsi e splendere la grande parete di roccia di Timpa di San Lorenzo, come accade di solito quando gli ultimi raggi del sole del tramonto la inondano. Eppure l’emozione è sempre uguale. La gioia e la pienezza di quel sentimento sono intatte. Un sentimento che i greci chiamavano eudaimonia, ossia avere un buon spirito guida, seguire il suo insegnamento. Per vivere la vita in armonia con la nostra essenza e lasciare questo mondo senza rimpianti.
*Avvocato e scrittore