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il monumento nazionale

C’è (anche) Pasolini nel Cristo di Cutro

di Romano Pitaro

Pubblicato il: 09/11/2025 – 9:40
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C’è (anche) Pasolini nel Cristo di Cutro

Pasolini profeta biblico di sventure laiche; Pasolini e il mistero sulla lunga notte all’Idroscalo di Ostia nel 1975; polemista corrivo; intellettuale controcorrente e scrittore prolifico; umanista irriducibile avverso la società interconnessa che ha derubricato tutti noi in consumatori soggiogati dai dittatori digitali del XXI secolo. Di tutto di più, a 50 anni dalla sua scomparsa.
Non gusteremo però (causa maltempo) la passeggiata letteraria “Sulle Dune di Pasolini” e le incursioni nella sua opera programmate per oggi a Cutro dall’associazione “Calanchi del Marchesato”.
Peccato, perché Cutro, il Marchesato e Pier Paolo Pasolini hanno una storia di profondo dolore. E c’è molto in comune fra Cristo venduto da Giuda, gli occhi sbarrati dei migranti annegati nel mare di Steccato il 26 febbraio 2023 e lo scrittore assassinato dal giovane Giuseppe Pelosi. E Pasolini lo puoi qui scoprire in atteggiamenti imprevedibili, ripercorrendo il suo arrivare in questo mondo a parte, con il taccuino in mano e lo sguardo appuntito.
“Elì, Elì, lemà sabactàni”. Ricordate? Violentemente torturato, i chiodi rabbiosamente ficcati nelle mani e nei piedi. La testa reclinata sulla spalla destra, il volto esausto. Sangue cola dalle tempie, sul collo, sulle braccia. Sgorga dal costato. Abbandonato, persino dai suoi più fidati amici, dodici. Uno dei quali, Giuda Iscariota, dopo averlo baciato, lo tradì (e poi s’impiccò), consegnandolo all’arrogante Caifa e agli aguzzini per trenta monete d’argento.
E’ il Cristo di Cutro: monumento nazionale dal 1940 scolpito da fra Umile Pintorno da Pietralia, scultore d’arte sacra del Seicento in Italia.
Gesù di Nazareth sta spirando. Prima, però, dalle sue labbra tumefatte esce quel disperato lamento in aramaico. “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra”, annota Matteo, uno dei quattro inviati speciali cui fu dato il privilegio di tramandare eventi clamorosi. Come l’angosciato appello di un uomo che posa lo sguardo nell’abisso dell’animo umano e non lo distoglie più.
Quando lo provocano, nel corso di un volgare processo politico: “Tu sei il figlio di Dio?”,risponde: “Tu lo dici”. Un’invocazione terribile, dinanzi alla quale l’Urlo di Munch è un armonioso mormorio.
Lì c’è angoscia e smarrimento, qui soltanto angoscia e sangue. Smarrimento no, perché l’uomo in croce ha un progetto da realizzare. Ha attraversato una parte di terra resuscitando morti, guarendo ciechi e paralitici, lasciando, a chi l’ha ascoltato, messaggi sconvolgenti (bellissimo il libro di Pietro Citati: “I Vangeli”).
I suoi biografi asseriscono che era “figlio di Dio”. Sia pure, ma la sua implorazione proviene dalla sua carne flagellata, dal costato aperto e dai piedi irrigiditi. E’ l’umanità lacerata dalle ingiustizie del mondo, che, prima di spegnersi, come uno qualunque, si rivolge al cielo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Volete vederlo con i vostri occhi l’uomo con le braccia spalancate, lasciato in balìa della bestialità umana dall’ora sesta all’ora nona, con la testa maciullata da una beffarda corona di spine?
E volete udire ancora quel rantolo sconvolgente, mentre è solo come nessun altro al mondo e sulla croce di legno, su cui campeggia il titulus con la sentenza: INRI, sorride, agonizza e muore?
C’è un luogo dov’è ancora possibile assistere alla morte che non si prende mai del tutto la sua vittima; dove anzi la vittima diviene padrone della morte, e la lascia in perenne attesa.
Il tempo s’è fermato e l’oscurità incombe ma non sopraggiunge. Per trovarlo, non occorre andare nei sacri refettori fiorentini e neanche nei musei romani colmi di turisti, o nelle chiese ridondanti splendori e lustri.
Gli somiglia un po’, ma meno tragicamente, la Pietà di Giovanni Bellini -Pinacoteca di Brera a Milano – e soprattutto il Cristo nel sepolcro – conservato a Basilea – di Hans Holbein il Giovane, che impressionò Dostoevskij al punto che ad un suo personaggio, nell’ Idiota, fa dire: “Osservandolo si perde la fede “.
Occorre, allora, giungere in Calabria. Come fece Pasolini. Per riscoprire, nella sua essenzialità e senza i sofismi della teologia ex cathedra, l’uomo inchiodato da duemila e rotti anni e vederne i tormenti.
Esattamente a Cutro (Kyterion), popoloso borgo del Marchesato, l’area che si estende tra il mare Ionio e la Sila: pianure infuocate e assetate. Lì dove si sarebbe potuta scrivere un’altra storia della Calabria, se il movimento contadino che agì tra il ’43 e il ’53 del Novecento non fosse stato sbaragliato.
Cutro: terra d’emigrazione e di prepotenza, di calanchi color del grano, “attraversata da lampi di violenza e di speranza”. Ed ecco Pasolini che mette piede in quelle terre tormentate.
Paesaggio brullo. “Poi la strada lascia il mare e s’interna in una zona tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka e il tramonto le vela di un rosa sangue”, scrisse nel suo viaggio del 1959 che gli valse una lunga polemica e più tardi il premio Crotone a cura di una giuria presieduta da Carlo Emilio Gadda.
Cutro, tra i fiumi Tacina ed Esaro: dove l’uomo costretto sul legno è tuttora una vibrante. E’ il Cristo di Cutro, che per suscitare emozioni non ha bisogno di ricorrere agli effetti speciali del Cristo di Mel Gibson.
La strada che porta da San Leonardo (sulla “106”) al Vignale di San Basilio, sembra il percorso che da Gerico conduce a Gerusalemme, e il rialzo su cui svetta il Convento della Riforma, costruito nel 1500, è il Golgota di queste parti.
Qui è custodito il Cristo di Cutro. E se lo guardi, avverti brividi ed orrore. Com’è potuto accadere quest’immane scandalo? Sul crocifisso di legno del 1630, il volto affranto di Cristo ha sul naso una stilla di lacrima. Anche Cristo, che potrebbe trasformare la “106” della morte in una superstrada sicura e in un fiat dissolvere i tormenti dei dannati della terra in fuga da guerre e penuria, piange. Sorride, se lo guardi da sinistra, ti parla se lo scruti dal centro, rassegna l’anima al padre, se ti metti a destra.
Ci sono due esegesi della sua greve implorazione finale, dopo che bevve il calice: “una profonda desolazione o, secondo l’uso religioso ebraico, piena fiducia in Dio, re dell’universo”.
Il Cristo di Cutro, come un fuggitivo dell’Africa, come un contadino miserabile che parte, come Pasolini detestato per le sue eresie culturali e gli “Scritti corsari”, se lo guardi dal centro, ha fiducia in Dio. Ma se scrutato da destra, è un uomo senza più radici né legami che nella morte trova l’unica sua via di fuga da un tempo feroce, che non l’ha capito.
Capisci anche perché Pasolini venne qui. Prima, nel 1959, per realizzare “La lunga strada di sabbia”, poi, nel 1964, per girare il film che gli costò l’accusa di vilipendio della religione: il “Vangelo secondo Matteo”, in cui impiegò molte comparse del luogo e affidò al partigiano Rosario Megale il ruolo di san Tommaso.
“Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro”, lo scrittore intuì “un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia”. E ne fu disorientato. In realtà, il Cristo di Cutro non nasce soltanto dall’arguzia di fine intagliatore di fra Umile. Ma dall’aver egli respirato la stessa aria dei vinti del Marchesato, travagliati da incursioni turche, carestie, fame e pestilenze. Un mondo di contadini angustiati da venti asciutti e da baroni rapaci.
Guardando il Cristo di Cutro, scoprendo quasi una cristianesimo delle origini in grado di scaldare i cuori, si può scorgere l’uomo crocifisso, il sembiante di un contadino del Marchesato scarnificato dai latifondisti e poi, addomesticata la riforma agraria, costretto a cercare altrove un luogo in cui ricominciare.
Commenta il professor Giovanni Ierardi, che conosce il Marchesato come le sue taasche: “Quando fece il sorriso del Crocifisso, frate Umile forse immaginò la gioia intensa che qualche volta assale i braccianti e li rende anche belli, pur nell’asprezza delle fatiche bestiali. O immaginò i sorrisi degli ignoti pescatori de Le Castella e di San Leonardo quando i conzi ritornano carichi di pesce”.
Dice un vecchio contadino a Giovanni Russo, che per realizzare un classico della letteratura meridionalistica “Baroni e contadini”, nel 1950 mette piede nel Marchesato: “E’ più facile parlare con Dio che col barone Barracco”.
Sì, per quei contadini, abbandonati dallo Stato e dai partiti della sinistra, che privilegiarono l’industria e lo sviluppo del Nord costato lacrime e sangue al Sud, era più facile imbattersi nel Cristo di Cutro e con lui condividere il male di vivere.
Parafrasando i termini della polemica Pasolini-Cutro ( il paese si risentì per alcune espressioni dello scrittore pubblicate dalla rivista “Successo” nel 1958: “Il luogo che più m’impressiona di tutto il viaggio. Il paese dei banditi come si vede nei western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello”), il Cristo di fra Umile Pintorno può senz’altro simboleggiare un bandito di Cutro in croce.
Nell’accezione però di verbo che ne diede lo scrittore, forse con l’intento di placare l’irritazione dei cutresi: banditi nel senso che “i poveri sono banditi (scacciati, esiliati!) dalla classe dominante, che li sfrutta e li spinge indirettamente al crimine”.

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