‘Ndrangheta a Roma, il potere rivendicato da Alvaro e Carzo: «Siamo in cento nel Lazio, una carovana per fare la guerra»
Episodio richiamato dal pm Musarò nel corso della requisitoria. Una delle frasi captate all’esterno di un noto locale della Capitale

ROMA Un “reato fantasma”. Così è stato definito il delitto associativo da uno che «ha avuto una condanna definitiva e poi è stato arrestato e condannato come capo locale di Roma». Con un tono quasi sarcastico il pm della Dda di Roma, Giovanni Musarò, cita una frase estrapolata da una conversazione il cui protagonista è Antonio Carzo, classe 1960, ritenuto a capo del locale di ‘ndrangheta di Roma insieme a Vincenzo Alvaro. E lo ha fatto nel corso della sua lunga requisitoria nel processo “Propaggine” nato dall’omonima inchiesta contro la presenza della ‘ndrangheta a Roma e sul litorale laziale, cercando ancora di dimostrare il doppio-ruolo svolto dai due presunti boss.
La grande presenza di calabresi nella Capitale
Nella stessa conversazione richiamata in aula da Musarò, Carzo avrebbe fatto riferimento alla grande presenza di calabresi nella Capitale, e non solo, cercando di darsi un tono. «Dice “noi siamo cento di noi altri in questa zona” e precisa, “nel Lazio” perché effettivamente» rimarca il pm «dei locali di Roma fanno parte tutta una serie di soggetti originari della zona del feudo Alvaro e dei vari comuni aspromontani, che non necessariamente stanno tutti a Roma». E cita gli esempi di Condina e Greco, «che stanno sul litorale, però si sono chiamati il posto nel locale di Roma».
Le frasi “scappate” ad Alvaro
Ma non è tutto. Anche Alvaro che, a detta del pm, «è sempre molto prudente», il ventriloquo di Alvaro è Marco Pomponio perché Alvaro parla poco, «però c’è una conversazione in cui si lascia scappare una frase», dice il pm Musarò, e forse perché si trovava all’esterno del “Binario 96” di Roma, «ma non sapeva che anche all’esterno c’erano delle microspie montate, e in una discussione con un corregionale che sarebbe stato pesantemente offeso da alcuni personaggi del gruppo Varsi che gli avrebbero detto, testualmente, “calabrese di merda”», spiega in dettaglio il pm romano. E questo soggetto spiega, «dice “io non ci sto dormendo la notte per questo motivo” e quindi si rivolge ad Alvaro».
Alvaro «“scacchista della ‘ndrangheta”»
Secondo quanto emerso dall’inchiesta e nella fase dibattimentale, e come ricordato dal pm Musarò nella sua requisitoria, il boss Alvaro «dà il solito consiglio, diciamo da “scacchista della ‘ndrangheta” e dice “fermo perché quelli adesso sono sotto l’occhio della magistratura”». Ed effettivamente, spiega il pm in aula, «pochi giorni prima di questa conversazione viene eseguita una misura di prevenzione nei confronti di Francesco Varsi» e come risulta «abbiamo prodotto una sentenza definitiva sui Moccia», potente famiglia malavitosa a cui proprio i Varsi sarebbero legati.
«Una carovana per fare la guerra»
Secondo il procuratore sarebbero da valutare i “contro”, secondo Alvaro. Perché «un domani, dice Alvaro, “siamo una carovana, una carovana per fare la guerra” “oggi no, un domani, noi siamo una carovana, figurati che ce ne frega dei Varsi”». L’errore, secondo il pm, è che «Alvaro è un semplice militante, è sempre molto attento quando parla, qui è stato semplicemente tradito dal fatto che era in strada, non poteva certo immaginare che erano montate le microspie anche qui», ha spiegato Musarò nella requisitoria. Però questa frase, “siamo una carovana per fare la guerra” per Giovanni Musarò «è perfettamente speculare a quella di Antonio Carzo quando dice “siamo cento di noi altri nel Lazio”. Dicono sostanzialmente la stessa cosa». (g.curcio@corrierecal.it)
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