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E le toghe in trincea rimangono sole

REGGIO CALABRIA Spudorato. Pesante, inquietante, vile, ma soprattutto spudorato. L`ultimo messaggio che i clan hanno voluto mandare all`indirizzo della magistratura reggina – quel plico con all`int…

Pubblicato il: 20/03/2013 – 15:57
E le toghe in trincea rimangono sole

REGGIO CALABRIA Spudorato. Pesante, inquietante, vile, ma soprattutto spudorato. L`ultimo messaggio che i clan hanno voluto mandare all`indirizzo della magistratura reggina – quel plico con all`interno un proiettile, insieme ad altri due oggetti dal medesimo significato intimidatorio, arrivato fin nella pancia del Cedir – proprio perché indirizzato contemporaneamente al pubblico ministero Antonio De Bernardo e al procuratore generale, Francesco Mollace, non corre il rischio di essere frainteso. Non sono molti i fascicoli che vedono i due sostituti impegnati sul medesimo fronte, ma dentro la gabbia degli imputati, con accuse pesantissime da affrontare, ci sono pezzi da novanta delle più importanti `ndrine della Jonica, incastrati per omicidi e fatti di sangue.  
È il caso dei Cataldo e dei loro sodali, che oggi affrontano il processo d`Appello in due dei tre filoni del procedimento scaturito dalle indagini sull`omicidio di Salvatore Cordì. Nonostante Antonio Cataldo, imputato come mandante e condannato come tale a trent`anni di reclusione in due gradi di giudizio, sia stato di recente assolto dopo il rinvio ottenuto in Cassazione, rimangono in piedi due tranche del medesimo procedimento. Processi che potrebbero sfociare in condanne pesanti e detenzioni lunghe, che da anni preoccupano i Cataldo. Hanno iniziato a discutere dell`argomento e a progettare contromisure fin dal 2008, quando in carcere gli inquirenti registravano una conversazione fra il boss detenuto e Francesco e Nicola Cataldo, all`epoca in visita, nel corso della quale si sente distintamente Antonio Cataldo affermare: «Questo fatto qua, gli ha chiesto il rito immediato è un rito immediato è un rito pericoloso perché non gli dà spazio alla difesa, lui adesso porta carte nuove, dice che da tre anni che sta facendo indagini».  
Ed erano allora – e sono probabilmente anche oggi – gli “elementi nuovi” quelli che spaventano i clan, quelle nuove acquisizioni che restringono il margine della cortina fumogena che gli uomini delle `ndrine possono e devono alzare per occultare le proprie responsabilità. «Ma sai cosa vuol dire – prosegue nella medesima conversazione Antonio Cataldo – una custodia cautelare da qua dentro? Che il processo uno non lo può seguire, sai che vuol dire per innescare un meccanismo di quell’altro processo come siamo qua… e vi dovete muovere… Basta, leggetevi i giornali…».
Per i pm che, come De Bernardo, all`epoca hanno avuto il compito di analizzare conversazioni di questo calibro, il significato è stato immediatamente chiaro: Antonio Cataldo teme un allargamento dell`inchiesta – cosa poi effettivamente avvenuta – e cerca di esortare i suoi parenti affinché «si adottino adeguate contromisure, che possono consistere in iniziative processuali, ma che, – si legge nelle carte – potranno e dovranno essere anche di altra natura e quindi volte ad inquinare il quadro probatorio o a garantirsi l’irreperibilità».  
Processi – oggi giunti in Appello, dove a sostenere l`accusa ci sono De Bernardo e Mollace – che incutono timore, soprattutto se dopo le prime durissime condanne iniziano a fioccare le collaborazioni, come quella di Domenico Oppedisano, meglio noto come “Mimmo”, il gioielliere di 58 anni, fratellastro del boss Salvatore Cordì, ammazzato il 31 maggio del 2005. Ai pm, Oppedisano ha dichiarato di aver deciso di collaborare con la giustizia nel momento in cui la sua famiglia gli avrebbe chiesto di testimoniare il falso in favore dei presunti assassini del fratello Salvatore. Una testimonianza necessaria per negare una faida che le `ndrine preferiscono gestire fra loro e senza che la magistratura possa utilizzare i fatti di sangue per costringere per lungo tempo dietro le sbarre capi e gregari.  
Ma a spaventare i clan della Jonica sono anche altre collaborazioni – sempre scaturite da un`attività investigativa pervasiva e testarda, che ha via via assottigliato i ranghi di storiche cosche del mandamento Jonico – come quella di Giuseppe Costa. Pentito fondamentale in una serie di procedimenti in via di definizione – come quello per l`omicidio Congiusta o “Mistero”, il processo contro la cosca Ursino, scaturito dalle indagini sull`assassinio di Pasquale Simari – con le sue rivelazioni rischia di inchiodare uomini chiave. Uomini che hanno in mano non solo i grandi affari o i grandi traffici, ma anche quei rapporti che permettono loro di drogare, ammaestrare e incanalare a dovere determinati procedimenti. Rapporti con quel “secondo livello” per lungo tempo rimasto latente, solo accennato o lasciato emergere dai procedimenti, ma che oggi le indagini di alcuni pm iniziano a far emergere.  
Ed è probabilmente a questo, un`iniziativa investigativa e dibattimentale troppo spesso rimasta isolata, che si deve la sovraesposizione di alcuni magistrati della Dda e della Procura generale reggina. Non più tardi di dieci giorni fa, un`altra intimidazione ha colpito infatti il pm Giuseppe Lombardo, anche lui sovraccarico di fascicoli delicatissimi e titolare di procedimenti importanti che alla sbarra vedono non solo elementi importanti dell`apparato logistico e militare dei clan, ma soprattutto i loro strateghi. Uomini espressione di una struttura che va ben oltre la Calabria, ben oltre le ‘ndrine, radicata e sviluppata nel tempo su tutto il territorio nazionale, così solida da non necessitare neanche di incontri o riunioni periodiche, ma capace di riattivarsi immediatamente – anche a distanza di decenni – su preciso e inconfondibile input.
Una struttura di vertice che si mischia con pezzi di Stato, della grande borghesia economica, delle professioni, della massoneria, e diventa altro. Un “altro”  non ancora definito in sede giudiziaria, ma da anni oggetto di indagini. Un livello ancora invisibile, ma puntuale e preciso nel rispondere quando si sente minacciato, dotato di occhi e orecchie altrettanto impercettibili, ma sempre all’erta quando ipotesi investigative si dimostrano di così ampio respiro da trascendere la dimensione di chi si diletta con cariche e santini, arrivando a toccare i centri decisionali dei nuovi sistemi criminali. E forse, almeno in parte, dello Stato stesso.  
E così alcuni pm diventano obiettivo di clan che hanno facile gioco nell`individuare un bersaglio, soprattutto alla luce del fatto che la poltrona del procuratore capo di Reggio Calabria è rimasta vuota per un anno. Per le `ndrine è stato un messaggio di straordinaria debolezza della macchina della giustizia. Un messaggio che hanno immediatamente colto. Solo così è possibile comprendere la lunga scia di intimidazioni, minacce, aggressioni e inquietanti iniziative dibattimentali che si sono registrate in questi mesi. Dalla barbara aggressione subìta dal pm Musarò, alle inquietanti e puntuali minacce fatte pervenire al pm Lombardo, e ancora i messaggi lanciati dal “banco nuovo” dei Serraino con lo loro sciopero della fame, nonché quest`ultima, vile, intimidazione recapitata all`indirizzo del pg Mollace e del pm De Bernardo, hanno tutte lo stesso significato: le `ndrine stanno sfidando lo Stato a non andare oltre l`ordinaria amministrazione. (0040)

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