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Scomparsa del "Nano", la verità di Di Landro

REGGIO CALABRIA «L’analisi attenta, globale di tutta la vicenda, dal gennaio ad oggi, non può non comportare un’accentuata, seria preoccupazione poiché trova ulteriore conferma il fatto che – comun…

Pubblicato il: 11/07/2013 – 6:00
Scomparsa del "Nano", la verità  di Di Landro

REGGIO CALABRIA «L’analisi attenta, globale di tutta la vicenda, dal gennaio ad oggi, non può non comportare un’accentuata, seria preoccupazione poiché trova ulteriore conferma il fatto che – comunque – il Lo Giudice, pur se da modesto “burattino” fa parte di un sistema ed è inserito come pedina in un gioco, che sicuramente lo trascende e lo determina». Un gioco che probabilmente – spiega a chiare lettere il procuratore generale Salvatore Di Landro nella relazione che ha voluto trasmettere alle massime autorità giudiziarie del Paese –  lo ha aiutato a far perdere le proprie tracce quando non è stato più in grado di reggere la situazione.
Sono parole rese ancor più pesanti e gravi dal peso politico e istituzionale degli interlocutori cui si rivolge – il Consiglio superiore della magistratura, la Procura generale presso la Corte di Cassazione e il ministero della Giustizia – quelle con cui Di Landro ha voluto sintetizzare il quadro venutosi a creare a Reggio Calabria all’indomani della scomparsa di Nino Lo Giudice, il pentito che dopo essersi reso irreperibile ha fatto pervenire uno scottante memoriale con cui smentisce tutte le sue precedenti dichiarazioni. Ma soprattutto un documento con cui accusa quella che definisce «una cricca di magistrati» – l’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto Michele Prestipino, e la sostituto Beatrice Ronchi – di averne drogato la collaborazione, inducendolo ad «accusare innocenti».

LE RAGIONI “INATTENDIBILI” DEL “NANO”
Ma le sei pagine con cui Nino Lo Giudice ha ritrattato tutto quanto rivelato in precedenza non sono – come Di Landro ha già sottolineato in contesti più o meno ufficiali – che l’ennesimo elemento ambiguo nella storia di una collaborazione dal profilo più che dubbio. Ed è con l’esperienza dell’inquirente che ha indagato sul conto di tutte le cosche della città e della provincia, ma mai – sottolinea – sul clan Lo Giudice, «un`antica modesta cosca (certamente non di primo piano nello scenario di Reggio Calabria e Provincia ) – che il procuratore generale nelle ventitré pagine di relazione enumera tutte le ombre che le “rivelazioni”  di Nino Lo Giudice non sono mai riuscite a dissipare, ma non gli hanno impedito di beneficiare, con sorprendente rapidità, del programma di protezione. Incongruenze – le definisce Di Landro – come quella fondamentale riguardante la vera causale degli attentati contro la Procura generale o contro la stessa casa del procuratore. Pur attribuendosene la paternità, il “Nano” non ha mai saputo spiegarne la vera ragione, «ha inevitabilmente sempre “farfugliato” ragioni ridicole, palesemente inattendibili». Del resto, sottolinea il procuratore generale, il clan Lo Giudice per lungo tempo è stato oggetto di attenzioni investigative, personaggi di primo e secondo piano della cosca sono stati sottoposti a intercettazioni di tutti i generi, telefoniche, ambientali e persino “labiali” e mai – nonostante non mancassero i riferimenti ai magistrati – sarebbe venuto fuori il nome di Di Landro.   

DUBBI SULLE INDAGINI
Concetti che spesso il procuratore generale ha avuto modo di accennare o spiegare. Tuttavia nella relazione si va oltre. Le perplessità di Di Landro, infatti, non riguardano solo le presunte “rivelazioni” del “Nano”, ma soprattutto le indagini che su tali “rivelazioni” sono state, o meglio, non sono state fatte. Se Nino Lo Giudice ha rivendicato di essere stato lui a lasciare a mo’ di intimidazione un bazooka inservibile – ma che mai è stato mostrato – nei pressi del Cedir, mai alcun approfondimento – ricorda Di Landro – è stato fatto sul colpo che – a detta del “Nano” – quell’arma avrebbe sparato, tanto meno sarebbero stati trovati o cercati residui di polvere da sparo. Eppure – sottolinea con un’amarezza che non riesce a celare, nonostante lo scarno linguaggio delle comunicazioni ufficiali – «si è consentito a Lo Giudice di imperversare con affermazioni che sfiorano il ridicolo quanto alla causale».

L’IMPROBABILE FUGA DEL “NANO” E
IL MEMORIALE “SCRITTO DA TERZI”
Ma è soprattutto riguardo agli ultimi avvenimenti, che con il fiuto e l’esperienza dell’inquirente di lungo corso, Di Landro non ha esitazioni a mettere in fila gli elementi che non riescono a trovare collocazione logica in un quadro oltremodo torbido e sfocato. Il “Nano” non ha preso la sua auto per allontanarsi, ha lasciato i suoi tre cellulari per non essere rintracciato o intercettato, ha trovato rifugio, altri mezzi e denaro che gli hanno consentito di sottrarsi alle ricerche a tappeto che sono state disposte quando di lui si sono perse le tracce, ma soprattutto – elenca Di Landro nella relazione – si è lasciato alle spalle un memoriale «certamente redatto con la collaborazione di terzi». Un documento – sottolinea il procuratore generale – su cui «non può non esprimersi ogni più ampia riserva per la probabile commistione di contenuti più falsi che veri. È peraltro verosimile che esso sia stato vergato anche da altra persona, perché il suo stile è più consono ad altro più colto soggetto». Tutti elementi che portano inevitabilmente Di Landro a una conclusione: il “Nano” non ha agito da solo, per sparire è stato aiutato.

L’OMBRA DEI BURATTINAI E IL CASO CISTERNA
Una conclusione logica – sembrano suggerire le risultanze investigative – ma che diventa ancor più inquietante alla luce di due elementi che il procuratore non esita a sottolineare. «La `ndrangheta non mi ha mai sottovalutato e dimostra di avermi ancora nei suoi pensieri», afferma Di Landro, alludendo presumibilmente a minacce e messaggi intimidatori che non sono divenuti di dominio pubblico, ma ugualmente devono aver preoccupato chi di dovere. Ma c’è un elemento – «gravissimo» per il procuratore generale – che non fa che avvalorare la tesi che vede in Nino lo Giudice, un’infima pedina di un gioco molto più ampio, compromettente e pericoloso.
Si tratta di un episodio che le cronache in passato hanno riportato, ma che oggi assume un’importanza fondamentale nella ricomposizione del contesto – ancora confuso – in cui collocare la “collaborazione” del “Nano”: la durissima relazione del magistrato della Dna, Roberto Pennisi, sulle pressioni che l’attuale dirigente della Mobile di Torino, Luigi Silipo, avrebbe ricevuto per alterare un’informativa a carico del procuratore aggiunto Alberto Cisterna, all’epoca numero due della Procura nazionale antimafia, indagato a Reggio per oltre due anni in seguito alle accuse di corruzione – mai riscontrate e di recente smentite – messe a verbale da Nino Lo Giudice al termine dei canonici 180 giorni durante i quali un pentito è obbligato a mettere a verbale tutto ciò che sa. Dei presunti rapporti fra il fratello Luciano e il magistrato Cisterna, il “Nano” si sarebbe invece ricordato solo al termine dei sei mesi in cui viene redatto il verbale illustrativo, affidando i sopravvenuti ricordi a un memoriale che all’ex numero due della Dna è costato un procedimento penale per corruzione in atti giudiziari. Un fascicolo poi archiviato – su richiesta della stessa Procura che lo aveva istruito – per mancanza di elementi validi per sostenere l’accusa, ma che all’ex vice di Grasso è costato due anni di gogna e la carriera, che lo vedeva proiettato a capo di quella Procura che su di lui ha finito per indagare. Ed è proprio nell’ambito di questi approfondimenti che sarebbe stata redatta quell’informativa che Silipo sarebbe stato costretto ad alterare. Circostanze di cui Pennisi – storico magistrato della prima Dda reggina, prima di approdare a più prestigiosi incarichi – era venuto a conoscenza dalla viva voce dello stesso funzionario di polizia e di cui aveva immediatamente messo a conoscenza le autorità competenti, inclusa quella Procura di Reggio che sulle dichiarazioni di Pennisi non ha mai disposto alcun approfondimento. Un comportamento
curioso ma che fa il paio con il religioso silenzio osservato da Silipo sul punto, rotto solo di recente, quando la totale ritrattazione del “Nano” ha reso ancor più pesante quella denuncia e ancor più grave la sua mancata valorizzazione.

UN DISEGNO CRIMINALE
Si tratta di elementi diversi e apparentemente – forse – distanti, ma che non possono che condurre Di Landro a ribadire quanto più volte affermato in passato: se Lo Giudice ha mai avuto un ruolo nelle vicende che si addebita non può che essere stato quello di un «modesto esecutore che come tale, ove anche la conoscesse, non può riferire la ragione degli atti che gli sono stati ordinati di compiere». Attacchi che hanno avuto come obiettivo anche lo stesso procuratore generale e che – afferma – non arrivano solo dalla criminalità organizzata, ma anche dalla stessa cosiddetta “zona grigia”, entrambe terrorizzate da un operato “limpido” e scevro da condizionamenti. Ma soprattutto – non esita a denunciare Di Landro – sarebbe la prova schiacciante di uno scenario inquietante. Uno scenario che la fuga del “Nano” non fa che confermare. «La paura così incontrollabile – scrive il capo dei magistrati reggini – che lo ha indotto ad abbandonare il programma di protezione chiarisce e ribadisce – se ancora ce ne fosse bisogno – la portata del disegno criminale e la pericolosità dei burattinai». Parole pesantissime che i destinatari della relazione di Di Landro difficilmente potranno non tenere in conto. (0090)

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