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Processo Lo Giudice, il pm Ronchi ipotizza la falsa testimonianza di Giardina

REGGIO CALABRIA Il figlio di una famiglia di mafia, rimasto “pulito” fino all’arresto del 2009, dunque spendibile come volto e mente imprenditoriale del clan, ma anche una presunta  fonte confidenzia…

Pubblicato il: 26/02/2014 – 13:32
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Processo Lo Giudice, il pm Ronchi ipotizza la falsa testimonianza di Giardina

REGGIO CALABRIA Il figlio di una famiglia di mafia, rimasto “pulito” fino all’arresto del 2009, dunque spendibile come volto e mente imprenditoriale del clan, ma anche una presunta  fonte confidenziale usata nel tempo tanto dai servizi di sicurezza, come dal Ros: è questa l’immagine di Luciano Lo Giudice  che il Beatrice Ronchi ha tentato di tracciare nei primi due giorni di requisitoria al processo contro il clan.

Atti in Procura per i vertici del Ros
Un ritratto per certi versi innovativo del “manager del patrimonio della famiglia Lo Giudice” – così lo definisce in un passaggio il pm – il cui ruolo come fonte investigativa, utile soprattutto ai fini della ricerca del superboss Pasquale Condello, non era mai emerso in altri procedimenti, tanto meno nelle deposizioni degli investigatori – fra tutti il Ros all’epoca comandato dal tenente colonnello Valerio Giardina – che più di tutti sono stati per anni impegnati  nell’attività finalizzata alla cattura della primula nera della `ndrangheta reggina. Ascoltati come testimoni in diversi procedimenti, tanto Giardina, come il suo secondo, il capitano Gerardo Lardieri, hanno sempre spiegato che le fonti confidenziali non hanno fornito un apporto significativo per la cattura del superboss  e soprattutto che mai alcuna informazione utile sarebbe venuta da appartenenti alla famiglia Lo Giudice, in nessun caso sfiorata dalle indagini riguardanti Condello. Affermazioni non veritiere per il pm Ronchi che ha chiesto per entrambi la trasmissione degli atti in Procura. Medesimo provvedimento invocato per il brigadiere Francesco Maisano, depositario de quelle confidenze di Luciano Lo Giudice, che almeno in due casi sarebbero state tenute in considerazione.

La perquisizione di via Manfroce
È  il caso della perquisizione – rivelatasi un buco nell’acqua – del 5 giugno 2007 nello stabile di via Manfroce, indicato da Lo Giudice al brigadiere Maisano come possibile covo del superboss. «Si tratta di un’operazione in grande che sta a significare che i suggerimenti dati da Lo Giudice Luciano venivano seriamente presi in considerazione. Un’operazione di questo genere – spiega il pm – è un unicum in Meta. Il capitano Parrillo ha infatti affermato che “una perquisizione non è uno strumento cardine delle nostre indagini perché puntiamo alla riservatezza”». In questo senso, deduce la Ronchi «è inverosimile che il comandante pro tempore dei Ros Lardieri disponga un’operazione descritta come un unicum in Meta solo per un’informazione riferita dal brigadiere Maisano, senza farsi dire il nome della fonte e senza aver valutato tale fonte come attendibile e affidabile». Una perquisizione condotta «non su input dell`autorità giudiziaria ma di iniziativa propria, che non è stata comunicata nelle forme e nei modi previsti dal codice» sottolinea il pm, che ricorda come per quella operazione non sia stato possibile rintracciare un verbale. Una circostanza spiegata in aula tanto da Lardieri, come da diversi sottoufficiali, che hanno confermato come – per tutelare l`attività su Condello che il Ros aveva in corso – fosse stato deciso di passare la mano – quanto meno pubblicamente – agli uomini del Comando provinciale quella notte intervenuti con il Ros. Spiegazioni che non hanno convinto il pm, secondo cui  proprio a causa di quel verbale mancante «potrebbe ricorrere un caso di omissione di atti d’ufficio».

Il sopralluogo di Pellaro
Ma nella ricostruzione della Ronchi, la perquisizione di via Manfroce non sarebbe stata l’unica attività del Ros scaturita dalle soffiate di Luciano. Su segnalazione del “manager” del clan, il brigadiere Maisano – depositario delle confidenze di Lo Giudice – avrebbe fatto un sopralluogo a Pellaro nella primavera estate del 2007, dunque – sostiene la Ronchi – prima ancora che il Ros stringesse il cerchio su quella zona. In realtà, a collegare il piccolo centro della periferia sud della città al superboss latitante era stato un indizio – come riferito dallo stesso Lardieri in aula – risalente all’anno 2006, quando l’esame di una busta della spazzatura gettata da Maria Morabito, la moglie di Pasquale Condello di cui proprio quella settimana erano state perse le tracce, aveva portato i Ros a rinvenure uno scontrino non fiscale relativo ad un supermercato di Pellaro. Circostanza ricordata dal pm in udienza, sottolineando però che «il capitano Parillo è venuto a dirci che le attività su quella zona si erano limitate a quello». A Pellaro – incalza il pm –  ci andrà invece nel 2007 il brigadiere Maisano, accompagnato dal luogotenente Cosentino «e ovviamente anche di questo non si rintraccerà verbale», sottolinea ironicamente la Ronchi, puntando il dito contro Lardieri. «Di questo sopralluogo- afferma il sostituto Beatrice Ronchi –  Lardieri dice di non ricordare nulla, non ricorda che Maisano gli abbia detto di Pellaro, ma questi cattivi ricordi contrastano con la sua fama di valido investigatore». E usa parole dure il pm nei confronti degli uomini del Ros, stigmatizzando il rapporto del brigadiere Maisano – all’epoca per sua stessa ammissione il più possibile tenuto lontano da compiti operativi – con Luciano Lo Giudice. «Consentire a un appartenente alla pg incontri confidenziali con un mafioso, senza un controllo da parte dei suoi superiori, senza l’obbligo di rendicontarli, è di evidente pericolosità anche per il militare stesso» commenta la Ronchi, per poi affermare «ci sono circostanze riferite da Lardieri e Maisano che non convincono questo pubblico ministero». Per il pm «non convince che Maisano non abbia comunicato ai suoi diretti superiori il nome della propria fonte», come «non convince che il brigadiere Maisano abbia riferito ai suoi superiori tutte le informazioni fornite da Lo Giudice tranne quella su Giovanni Barillà, perché lo considerava soggetto già attenzionato dunque non interessante». Nonostante tali circostanze siano state a lungo indagate e spiegate, tanto in istruttoria come in dibattimento, per il sostituto «siamo di fronte a persone che dimenticano passaggi fondamentali ma su particolari insignificanti mostrano certezze incrollabili basate sul nulla». Non lo dice mai esplicitamente, ma per la Ronchi tanto Lardieri come Maisano starebbero nascondendo qualcosa, probabilmente – lascia intendere il pm, ma senza azzardare una spiegazione sulla reale ragione – il ruolo ricoperto da Luciano Lo Giudice in quell’indagine. Un motivo  più che sufficiente – spiega la Ronchi – per chiedere per entrambi la trasmissione degli atti in Procura.

Giardina “corpo estraneo”
Non meno pesante il giudizio su Giardina, definito «quasi un corpo estraneo rispetto al reparto che lui stesso era chiamato a dirigere». Per il pm, l’ex comandante del Ros reggino non solo avrebbe sempre negato il ruolo delle fonti confidenziali nella cattura di Pasquale Condello, circostanza a suo dire, «totalmente smentita da questo dibattimento», ma avrebbe anche reso dichiarazioni non corrispondenti al vero nell`affermare «di non aver mai trattato i Lo Giudice come famiglia mafiosa». Ripercorrendo le deposizioni dell’ufficiale al procedimento Meta, la Ronchi sottolinea  infatti che in quell’occasione Giardina, rispondendo alle domande degli avvocati, avrebbe ammesso che  ci sarebbero state alcune fonti fiduciarie intervenute nell’indagine su Condello, ma non nella sua cattura. Dichiarazioni alla luce delle quali per il pm «non può non riconoscersi che le fonti confidenziali sono state uno strumento sia pure residuale e questo non riguarda solo Luciano Lo Giudice, ma anche i coniugi Rodà». Anche per l’ufficiale dunque, la pubblica accusa ha chiesto al Tribunale di trasmettere gli atti alla Procura per ulteriori approfondimenti.

Parole dure per Panvino, ma nessun approfondimento necessario
E un giudizio durissimo da parte della pubblica accusa è arrivato anche all’indirizzo dell’ex funzionario della Mobile di Reggi o, Renato Panvino, in passato tirato in ballo da Luciano Lo Giudice tanto nelle lettere ai suoi familiari, come nelle conversazioni intercettate in carcere dalla cimice del Ros. Stando a quanto involontariamente da lui stesso raccontato, Lo Giudice avrebbe avuto un feroce scontro con Panvino in occasione di una convocazione in Questura, quando il funzionario avrebbe tentato di ottenere da lui informazioni su Pasquale Condello. Una circostanza confermata in aula Panvino, pur negando di aver avuto qualsiasi scontro con quello che allora era solo un imprenditore chiacchierato. Ma quello non sarebbe stato il primo incontro fra i due. In precedenza, il funzionario – in tal senso sollecitato dal capitano Spadaro Tracuzzi – aveva infatti già incontrato Lo Giudice, come soggetto potenzialmente utile per raccogliere informazioni. «Anche in questo caso – tuona il pm – un appartenente alla pg ha preso contatto con un pregiudicato senza avvisare il proprio superiore e senza fare una relazione di servizio dopo».  In aula – ricorda il pm – Panvino si giustificherà dicendo che all’epoca Lo Giudice era solo un imprenditore incensurato, ma la spiegazione non sembra convincere la Ronchi che ricorda come – su segnalazione di Lo Giudice, fatta arrivare al funzionario tramite il capitano Spadaro Tracuzzi – verranno disposte due perquisizioni, rivelatesi però due buchi nell’acqua. «Per Panvino,  Lo Giudice è una fonte non attendibile ma allora perché – si chiede il pm – nel febbraio 2006 viene convocato in Questura per una possibile collaborazione alla cattura di Condello e gli si offre eventualmente anche del denaro? ». Una domanda che rimarrà senza risposta, ma per la quale non verranno ritenuti necessari ulteriori approfondimenti.

Cisterna e i contatti interrotti con Lo Giudice
Ma c’è un altro quesito, fatto emergere dalle conversazioni  intercettate in quella che il pm definisce “un’indaginetta” su un giro di piccolo spaccio e che casualmente arriverà a lambire anche Luciano Lo Giudice, che il pm ci tiene a sottolineare. Dalle intercettazioni disposte su un’utenza a riconducibile al manager del clan, verrà fuori infatti il tentativo di Luciano Lo Giudice di contattare l’allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, in seguito al controllo effettuato dalla polizia amministrativa presso il bar Peccati di gola. Dopo quella telefonata i contatti fra i due si interromperanno definitivamente. Una circostanza spiegata dall’ex numero due della Dna – tanto in istruttoria come in dibattimento – affermando di essersi sentito disturbato da una richiesta del genere, tanto da interrompere qualsiasi contatto con Lo Giudice. Una versione che sembra confermata anche dalla conversazione che un delusissimo Luciano avrà di lì a poco con Antonino Spanò, ma non per il pm ,che afferma  «deve sottolinearsi un argomento logico di portata fondamentale. Nel 2009, dopo l’arresto, Luciano ha ripetutamente chiesto ai propri familiari di contattare Cisterna e tramite telegramma ha tentato di contattarlo direttamente. Come si spiega se nel 2007 erano stati interrotti i rapporti? ». Una questione già in larga parte affrontata nella prima parte della requisitoria, quando il pm ha tratteggiato il cosiddetto “prima” nella storia della cosca Lo Giudice. Un periodo – ha affermato senza mezzi termini – «durante il quale non sono stati disposti i necessari approfondimenti investigativi e si è preferito instaurare con Luciano Lo Giudice un rapporto da fonte confidenziale».  

Il “dopo”, Luciano mente imprenditoriale del clan
Nella ricostruzione del pm, sarà dunque solo in una seconda fase, caratterizzata da «assoluta trasparenza e correttezza degli apparati investigativi che arriveranno a valorizzare anche precedenti acquisizioni» che verrà approfondito il ruolo di Luciano Lo Giudice come mente imprenditoriale del  clan. Soggetto pulito in una famiglia flagellata dalle condanne per associazione mafiosa, Lo Giudice sarebbe stato scelto come volto imprenditoriale, destinato a mettere a frutto i patrimoni derivanti da quelle che il pm ha definito le “storiche attività di famiglia”, l’usura – praticata anche nei confronti di quei soggetti irretiti con il vizio del gioco, grazie alle macchinette sconosciute al Monopolio che Luciano teneva nel suo bar –  e l’intestazione fittizia di beni. Una strategia ormai divenuta classica nelle consorterie mafiose – ricorda la Ronchi – per salvare i beni accumulati da sequestri e confische, intestandoli a terzi di fiducia, quali ad esempio parenti incensurati  o fidati prestanome.  «Le indagini svolte dal gennaio 2008 hanno permesso di accertare – sintetizza il pm – l’esistenza di numerosi immobili appartenenti a Luciano ma intestati a terzi, come pure di società di cui Luciano era il titolare effettivo o il socio occulto». Risultanze che promettono di impegnare buona parte della tre udienze già programmate per la conclusione della requisitoria.  (0020)

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