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RAPPORTO ECOMAFIE | 'Ndrine all'assalto della Calabria

CATANZARO È un quadro devastante, che vede la Calabria sul podio – o appena sotto – in tutte le classifiche per illeciti ambientali, quello che viene fuori dal rapporto Ecomafie, stilato come ogni …

Pubblicato il: 10/06/2014 – 22:00
RAPPORTO ECOMAFIE | 'Ndrine all'assalto della Calabria

CATANZARO È un quadro devastante, che vede la Calabria sul podio – o appena sotto – in tutte le classifiche per illeciti ambientali, quello che viene fuori dal rapporto Ecomafie, stilato come ogni anno da Legambiente. Dalle società municipali alla gestione delle discariche, dagli ancora troppo misteriosi tombamenti, di cui tanti pentiti hanno parlato ma senza che un’indagine organica sia stata avviata, alle compiacenze istituzionali, che hanno trasformato una ventennale “emergenza rifiuti” in un business senza fine, la Calabria descritta dagli ambientalisti è una regione a perdere, venduta, tradita. Lo hanno raccontato inchieste, come quella condotta dalla Dda reggina sulla Leonia, che ha svelato come il clan Fontana si sia appropriato della raccolta rifiuti a Reggio Calabria, anche grazie – ricorda il rapporto, richiamando quanto sull’indagine spiega la relazione annuale della Dna – agli «inquietanti rapporti di vicinanza fra le cosche e gli amministratori e i dipendenti comunali», non solo quelli eletti nel maggio 2011 «ma in tutta evidenza anche della precedente». Anzi, «almeno da tre tornate elettorali». O quella coordinata dalla medesima Procura sull’indiscriminato smaltimento dei rifiuti «nel termovalorizzatore di Gioia Tauro (lavoratori e sindacati parlano di un impianto “fatiscente”) e nelle discariche di Rossano, Alli (già sotto indagine per l’ampliamento) e Pianopoli», che ha portato all’iscrizione sul registro degli indagati di 29 persone, tutte accusate a vario titolo di «aver sversato illecitamente – o di aver permesso che questo avvenisse – migliaia di tonnellate di spazzatura. In pieno regime commissariale».

 

PARADOSSO CALABRIA
Inchieste importanti, ma che per Legambiente non arrivano a dare un quadro completo della tragedia calabrese, su cui poco – mettono nero su bianco gli ambientalisti – si è indagato. «Basta dare un’occhiata al numero dei procedimenti iscritti dalla Direzione distrettuale antimafia come “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” nel periodo che va dal 1° luglio 2012 al 30 giugno 2013: la Dda di Reggio Calabria conta appena 2 procedimenti e 10 indagati, quasi quanto Perugia (2 procedimenti e 9 indagati); anche la Dda di Catanzaro conta 2 soli procedimenti ma gli indagati sono ben 75, mentre Brescia, solo per fare un altro esempio, ha più o meno lo stesso numero di indagati (77) ma 8 iscrizioni», annota Legambiente che aggiunge «ancora più “sorprendente” il quadro che viene fuori se si cercano i casi in cui è stato riscontrata l’aggravante che collega il delitto ipotizzato al crimine organizzato mafioso, come origine o come finalizzazione: sono 4 e riguardano Bologna, Campobasso, Catania e Napoli. Nessuno in Calabria».

 

ISTITUIRE IL REATO DI DISASTRO AMBIENTALE
Un paradosso già sottolineato dalla Dna, che nella relazione annuale del 2013 sottolineava come «non sia stata registrata nessuna aggravante a Palermo, capitale di Cosa nostra, come pure a Reggio Calabria e a Milano, dominate dal punto di vista criminale da una ‘ndrangheta della medesima matrice» e che agli ambientalisti serve soprattutto per tornare a invocare l’introduzione del reato ambientale e – citando il magistrato Roberto Pennisi – «dell’aggravante ambientale per alcuni reati come quelli contro la pubblica amministrazione e l’incolumità pubblica». Gli attuali strumenti normativi, spesso mutilati dalla tagliola della prescrizione, non sembrano infatti essere sufficienti, così come poco efficaci – e la Calabria ne è la prova – sono le leggi ritagliate su misura per un territorio. «In Calabria sedici anni di commissariamento per l’emergenza ambientale – dice in maniera chiara Legambiente – sono serviti a poco, nonostante un impegno di spesa di quasi un miliardo di euro. Non sono stati utili per la gestione delle discariche. Sei quelle pubbliche e troppe oggetto di indagini della magistratura, come il sito di Melicuccà in Aspromonte, contestato per la presenza di un vicino elettrodotto e soprattutto per l’esistenza di una falda acquifera proprio sotto la discarica. Fino alla discarica di Scala Coeli e la piccola discarica di Celico, in provincia di Cosenza, che ha messo in allarme cittadini e movimenti che sono arrivati a denunciarne l’utilizzo alla procura della Repubblica».

 

DALLE ISTITUZIONI SCELTE CHE SPALANCANO LE PORTE AI CLAN
Un disastro che per gli ambientalisti porta la firma chiara dei responsabili, che nulla hanno fatto in passato e nulla sembrano avere intenzione di fare, se non perseverare nell’errore: «La regione – si legge nel rapporto – si contraddistingue per una totale assenza di politiche per la prevenzione dei rifiuti e per il contrasto delle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, così come hanno più volte denunciato pubblicamente le associazioni ambientaliste, gli inquirenti e chiunque, in buona fede, si sia confrontato con questo tema. Al momento, infatti, le sole soluzioni proposte vanno nella direzione sbagliata, e puntano solo sull’ampliamento di vecchie discariche o l’apertura di nuove, senza immaginare soluzioni serie in merito alla raccolta differenziata e al riciclo dei materiali. Scelte criminogene che spalancano le porte ai clan». Scelte contro cui sempre più spesso sono gli stessi cittadini a insorgere, costringendo le Procure ad accendere i riflettori su territori martoriati come nel caso di Celico o della Battaglina di San Floro, destinata – almeno nelle intenzioni degli amministratori – «a diventare la seconda discarica più grande d’Europa (nonostante la definizione di “isola ecologica”), smaltire rifiuti contenenti amianto e i lavori di realizzazione avrebbero dovuto distruggere il bosco realizzato grazie a un piano di rimboschimento durato quasi 40 anni. Nonostante i vincoli paesaggistici, la presenza di usi civici e il rischio idrogeologico».

 

EMERGENZA CALABRIA, OCCASIONE PER I CLAN
Se oggi il territorio mostra le ferite di oltre vent’anni di emergenza divenuta cronica – sottolinea Legambiente – e dei vuoti normativi riempiti di ordinanze e prassi, c’è chi, come la criminalità, ha provato a giocare la carta dell’autogestione. E quasi sempre ha vinto. Una tesi amara, ma che affonda le radici nel lungo rosario di illeciti ambientali che sono stati consumati e si consumano in Calabria. «Solo fra febbraio e marzo 2014 – si legge nel rapporto – il litorale di Fuscaldo, nella zona Valle Santa Maria, è stato invaso da microdiscariche di materiale edile, rottami ferrosi e sanitari, mentre a Paola i rifiuti erano sparsi per quasi un chilometro, e a Melito Porto Salvo sette persone sono state denunciate per il riversamento dei rifiuti nell’alveo del Torrente». E ancora, a Spezzano Albanese, in trenta giorni, sono stati sequestrati più di 120.000 metri quadrati di terreni invasi dai rifiuti, mentre a Serra San Bruno, l’isola ecologica del comune si è trasformata in una vera e propria discarica. Peggio – ricorda Legambiente è a Nocera Terinese (in provincia di Catanzaro): a febbraio la guardia di finanza ha scoperto che venivano assegnati incarichi d’urgenza per saltare le procedure d’appalto, e l’attuale sindaco e il suo predecessore sono stati denunciati insieme a un imprenditore che stoccava abusivamente rifiuti speciali e pericolosi in un terreno di sua proprietà. I finanzieri hanno accertato che quest’ultimo era l’affidatario del servizio raccolta rifiuti solidi urbani e ingombranti per conto del comune di Nocera Terinese, e che tale commessa non gli era stata affidata a seguito di una gara d’appalto, «bensì a mezzo di svariate ordinanze del sindaco pro tempore» che venivano giustificate con «ragioni d’urgenza».

 

CALABRIA SOTTO ASSEDIO
Ed è forse per questo che nel proprio rapporto gli ambientalisti scrivono: «Per capire questa non bastano le carte delle Procure (..) e neppure i numeri sulle performance nel settore dei rifiuti
, come quelli che contano le tonnellate di rifiuti urbani prodotti (secondo l’Ispra 864.945 tonnellate nel 2012; circa 0,43 tonnellate per ogni calabrese) insieme a quelli che descrivono il fallimento della raccolta differenziata (ferma sotto il 14%, con l’intera provincia di Reggio Calabria ancorata al 10%). Per descrivere la Calabria bisogna averla vista, stretta da un fiume di rifiuti in ogni angolo di strada». E quello – lancia l’allarme Legambiente – non è che il problema più noto, visibile e manifesto. Anche la Calabria potrebbe nascondere una terra dei fuochi. Lo dicono le intercettazioni confluite in procedimenti come l’inchiesta Saggezza, lo dicono vecchi e nuovi pentiti, lo affermano vecchie note dei servizi di sicurezza che già vent’anni fa avvertivano sul coinvolgimento della ndrangheta nel lucroso business del traffico di rifiuti. «Quelli che emergono dalle inchieste – conclude Legambiente – sono spezzoni di probabili verità. Come altri, raccontati nelle precedenti edizioni del rapporto Ecomafia, rischiano, singolarmente, di restare fine a se stessi perdendosi all’interno dei complessi fascicoli delle indagini riguardanti i grandi processi di ‘ndrangheta. Senza collegarsi, non diventando mai una verità compiuta». Un’analisi condivisa dal procuratore capo della Dda reggina, Federico Cafiero de Raho, che non più tardi di qualche mese fa ha risposto all’appello degli ambientalisti – ricorda Legambiente nel proprio rapporto – annunciando: «Istituiremo un settore d’attività dei magistrati che riguarderà proprio l’ambiente. E con l’ambiente le malattie che possono esserne derivate». Anche perché – e questo è forse il sospetto più grave – l’avvelenamento non riguarda solo terre e mari di Calabria, ma inevitabilmente anche i calabresi.

 

DI AMBIENTE (AVVELENATO) SI MUORE
«Mentre in Calabria non c’è ancora un registro tumori – si legge nel rapporto – di questa terribile patologia la gente continua a morire in maniera drammatica. Per esempio ad Africo, nella Jonica reggina, dove su 3.100 abitanti, le morti per tumore hanno raggiunto picchi elevatissimi rispetto a ogni statistica». In via Giacomo Matteotti – ricordano gli ambientalisti – «abitano 22 famiglie, circa 50 persone, ma negli ultimi 3 anni ben 33, tra cui diversi bambini, sono morte di cancro e numerose altre sono attualmente in lotta contro questa terribile malattia». Ma il piccolo comune della Locride non è che uno dei tanti comuni che hanno visto patologie mortali divenire endemiche, mentre grava ancora l’ombra pesante delle navi dei veleni, come della giustizia negata per chi, come il capitano Natale De Grazia, su quel mistero aveva deciso di andare fino in fondo. «Non smettere di cercare, fino a scoprirla, la verità sui tombamenti di rifiuti tossici come sulle navi dei veleni – conclude Legambiente – significa prima di tutto poter individuare e bonificare i siti, e prevenire per quanto possibile, le contaminazioni e tutelare la salute dei cittadini. Anche se a distanza di tanti anni molti reati sono ormai prescritti, resta una chiave per capire l’oggi e, soprattutto, un obbligo morale nei confronti di coloro che in questa guerra silenziosa sono caduti». (0090)

 

Alessia Candito

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