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Mafia e Antimafia

L’informazione non è andata in ferie. Nel mese di agosto, ha lavorato tanto sul tema di mafia e antimafia e vorremmo parlare proprio di questo: il tema caldo dell’estate di quest’anno, ricca di inchi…

Pubblicato il: 29/08/2014 – 11:51
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L’informazione non è andata in ferie. Nel mese di agosto, ha lavorato tanto sul tema di mafia e antimafia e vorremmo parlare proprio di questo: il tema caldo dell’estate di quest’anno, ricca di inchini rovesciati (non i fedeli davanti alle immagini sacre, ma di queste davanti a fedeli del tutto speciali), di polemiche tra garantisti e giustizialisti, di invettive, di proposte al limite del surrealismo, insomma, di tutto e del suo contrario. Proviamo a introdurre elementi di razionalità, laddove sembra prevalere l’improvvisazione, l’emotività, la ricerca del consenso mediatico. Ci aiuta in questa riflessione la lettura del libro di Pietrangelo Buttafuoco,“Buttanissima Sicilia”. Condivido la sua tesi, che lo statuto di autonomia speciale della Sicilia sia stato frutto “dell’unica e vera trattativa Stato-mafia”, ma non è di questo che intendo parlare, ma dei guasti di quella che Buttafuoco definisce “la mafia dell’antimafia”. Nella quale egli inserisce non solo l’antimafia della cosiddetta società civile, ma quella istituzionale, quella giornalistica, quella politica. Citare non vuol dire necessariamente condividere, anche se alcune considerazioni si impongono. In apparenza, sembra accentuarsi l’interesse generale sui temi della dilagante presenza mafiosa nel Paese, ma non saprei dire chi, al momento, sta peggio tra mafia e antimafia. Propenderei per la seconda, nonostante la successione dei “successi” investigativi che essa può vantare, e ciò a causa del clima di stanchezza generale che si sta creando nel paese intorno a questi argomenti. Da una parte, infatti, riprende vigore un garantismo di maniera, a prescindere, preconcetto, ideologico e già solo per questo, sbagliato. Su ogni vicenda si mettono in rilievo gli errori, le forzature, le contraddizioni, della magistratura, intesa come “blocco unitario”, corporativo, il cui interesse sarebbe unicamente quello di rafforzare il proprio potere, utilizzando a tale fine gli strumenti repressivi e intimidatori in suo possesso. Dall’altra, invece, si accentuano le fughe in avanti, di chi propone di chiudere la secolare lotta alla mafia, con l’adozione di misure sanzionatorie sempre più dure nei confronti dei mafiosi e dei loro sostenitori. Si leggono proposte di applicare a tutti i condannati per mafia il regime detentivo del 41 bis dell’ordinamento penitenziario (pur sapendo bene che si tratterebbe di soluzione impossibile, in diritto e in fatto), la condanna ai lavori forzati per trenta anni, o la schedatura di intere categorie di cittadini. Non aggiungo ulteriori specificazioni al riguardo, non avendo intenzioni polemiche (ma di netto dissenso sì, e come!), intendendo segnalare una sorta di rincorsa a chi lancia le proposte più dure e radicali, senza alcuna preoccupazione per la compatibilità con la costituzione nazionale e con la normativa europea. Opinioni contrastanti che finiscono con il giustificarsi e sostenersi vicendevolmente, come sempre accade con gli opposti radicalismi. Stupisce non poco, ad esempio, che chi polemizza contro lo strapotere dei pubblici ministeri e dell’uso che essi ne farebbero, sostenga nel contempo la separazione delle funzioni giudicanti da quelle requirenti, senza avvedersi che in tal modo ne risulterebbe accentuata quella deriva autoritaria e poliziesca dei pubblici ministeri contro la quale si era appena finito di polemizzare, dimenticando che solo l’appartenenza comune alla magistratura, organo terzo, composta di giudicanti e requirenti, è garanzia di applicazione imparziale della legge, non solo nella fase giudicante, ma anche in quella delle indagini, laddove i pericoli per le lesioni della libertà personale sono sicuramente maggiori. La separazione delle carriere condurrebbe inevitabilmente all’introduzione di forme di controllo sull’operato dei pubblici ministeri, che ne offuscherebbero, ad essere ottimisti, l’autonomia, ma più ancora l’ancoraggio al dettato costituzionale dell’articolo 112 che dichiara obbligatorio l’esercizio dell’azione penale, riducendolo al ruolo che occupa nei paesi nordici, quello di avvocato della polizia. Alcune iniziative giudiziarie danno l’impressione che, più che condurre indagini difficili, lunghe e rischiose circa i collegamenti occulti tra poteri criminali di vario genere e specie, all’interno dei quali le mafie svolgono funzione essenziale di “garanti del sistema”, si cerchino facili obiettivi, mediaticamente redditizi, senza grande preoccupazione per i risultati finali che ne conseguiranno. È come se faccia difetto la strategia di medio e lungo periodo e fosse privilegiata la tattica di risultati parziali, provvisori, i soli ritenuti idonei a produrre risultati utili sul piano professionale (come purtroppo l’esperienza ha insegnato). Nel contesto polemico di mezza estate, si inserisce la lettera di Nando Dalla Chiesa al Fatto quotidiano del 9 agosto, nella quale replicava con inusitata durezza al presidente di Confindustria Calabria a proposito delle infiltrazioni ‘ndranghetiste nei lavori di Expo 2015.

In sostanza, la lettera dava l’impressione che lo sdegno di Dalla Chiesa fosse diretto non tanto verso gli imprenditori espressione della ‘ndrangheta calabrese, ma, più in generale, degli stessi calabresi nel loro complesso. Facciamo un passo indietro. Dalla Chiesa è presidente del Comitato Antimafia istituito dal Comune di Milano nel 2011, dal sindaco Pisapia, che ha sinora redatto ben cinque relazioni sulle infiltrazioni mafiose in quel Comune, tutte pubblicate, tranne la terza, il cui contenuto è riservato. La quinta relazione è stata resa nota ai primi di agosto ed è incentrata esclusivamente sui lavori relativi a Expo 2015 ed alle infiltrazioni delle imprese mafiose, e specificamente di ‘ndrangheta, nonostante le segnalazioni contenute nelle precedenti relazioni e l’indicazione degli strumenti organizzativi idonei a prevenirle. La relazione segue di pochi mesi quella precedente, redatta in aprile, dettata dall’urgenza di segnalare la sopravvenuta conoscenza di fatti che «disegnano una situazione per molti aspetti inquietante. Una situazione abbastanza diversa da quella ripetutamente rappresentata in ritratti rassicuranti, secondo i quali l’unico problema di Milano Expo 2015 sarebbe quello di realizzare in tempo i padiglioni previsti sull’area espositiva». In particolare «nel corso degli ultimi mesi si sono manifestati i segni concreti dell’incombenza di interessi di ambienti mafiosi, più particolarmente ‘ndranghetisti, sui lavori che riguardano e accompagnano la preparazione dell’evento Expo 2015». «Perché non è vero che “ormai tutti giochi sono stati fatti”. Perché molti sono ancora i lavori da realizzare, e di molti si scoprirà l’indifferibile utilità nei prossimi mesi. E molti sono i servizi ancora da garantire a espositori e turisti. Da qui, talora, per lo stesso Comitato, anche una specie di coazione a ripetere cose già dichiarate. Per lo scrupolo di non essere stato ben inteso. Per la speranza che i fatti nuovi diano alle parole già spese un valore superiore. Perché nessuno possa in futuro dire che certi avvenimenti si sono realizzati senza che una struttura “dedicata” come questo Comitato abbia sentito il bisogno di svolgere per intero il suo dovere. Quello di avvertire, di denunciare». Si coglie un senso di frustrazione, per la impossibilità di arrestare l’inserimento delle imprese di ‘ndrangheta nei lavori dell’Expo 2015, per l’insensibilità della politica preoccupata solo di portare comunque a termine l’opera, per la stessa parzialità dei risultati investigativi sinora acquisiti. Si legge ancora nella relazione come «le imprese dei clan affermino la propria presenza in assoluta indifferenza alle norme stabilite nei protocolli antimafia e alle sanzioni in essi previste. E questo per la loro comprovata capacità di imporre una presenza defacto, fondata sulla certezza delle omissioni altrui e sulla efficacia della propria forza persuasiva nei conf ronti dei soggetti eventualmente resistenti». Conclude amaramente la relazione che «da un lato si rappresenta la situazione milanese come estranea a rischi di presenza mafiosa (“al massimo un po’ di corruzione”), dall’altro lato i fatti raccontano di una presenza che sa imporsi con disinvoltura a dispetto di norme speciali e di pubbliche promesse». Si coglie il limite dell’idea che la mafia si possa combattere a colpi di protocolli di legalità, come ci si era illusi di potere fare. La relazione, ovviamente, non contiene alcun giudizio di generalizzata intolleranza verso i calabresi, ma il suo presidente, che vive con passione accorata il dramma dell’occupazione mafiosa della sua regione, nel constatare l’assenza di autocritica del rappresentante calabrese di Confindustria e la sua afonia in materia di mafia, ha reagito rifiutando i soliti abusati stereotipi e le solite altrettanto abusate distinzioni di maniera e chi lo conosce sa bene con quanta amarezza abbia espresso queste considerazioni. Detto questo, va anche detto che anche quelle espressioni possono essere criticate. I risultati cui giunge la relazione del Comitato Antimafia di Milano evidenziano drammaticamente il ritardo politico, culturale, investigativo, delle istituzioni lombarde nella comprensione di un fenomeno denunciato sin dalla fine degli anni’80, e di cui già allora si poteva cogliere la pericolosità. Evidenziano altresì la consapevole sottovalutazione della ‘ndrangheta prima in Calabria, quindi nel nord Italia, le complicità della politica, i patti occulti che hanno consentito alla mafia calabrese di farsi largo nel traffico di cocaina e poi nella conquista dell’economia lombarda, anche grazie, è bene sempre ricordarlo, alla domanda di mafia, che proveniva dagli ambienti imprenditoriali e politici di quella regione. L’indignazione di Dalla Chiesa avrebbe dovuto rivolgersi anche contro tutto questo, ma nel contempo rende obsoleta e anacronistica la rivalutazione, vorrei dire “postuma”, di una dimensione “tradizionale” della ‘ndrangheta calabrese che trova la sua espressione “estiva” più evidente in usanze e costumi ormai consolidati, solo oggi scoperti e criminalizzati (a quando la proposta di inserire l’inchino tra i reati di mafia di cui all’articolo 51, comma 3-bis del codice di procedura penale, di competenza della Dna?), peraltro destinati a scomparire nell’arco di pochi anni. Riscoprire questa dimensione, anche attraverso operazioni giudiziarie enfatizzate mediaticamente molto al di là della effettiva consistenza, significa autorizzare visioni antropologiche e culturali dei fenomeni mafiosi, valide forse sino agli anni ’70 del secolo scorso, ma oggi, false, fuorvianti e rassicuranti, perché se la mafia operante in Lombardia è connaturata all’origine calabrese, allora il pericolo è “esterno” e non invece componente divenuta anche lì organica della società, della cultura, dell’economia e della politica. Ho detto e ripeto che l’esito della lotta alla mafia in Italia dipenderà da quello del contrasto nelle regioni del Nord Italia. La sconfitta e gli insuccessi in quelle regioni determineranno il passaggio dell’intera penisola a stato mafia, senza possibilità di riscatto, per sempre. (0050)

 

*magistrato 

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