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Condannati a 30 anni gli assassini di Angela Costantino

REGGIO CALABRIA Hanno un nome e un volto gli assassini di Angela Costantino, la moglie del boss Pietro Lo Giudice, scomparsa senza lasciare traccia il 16 marzo del 1994. Il gup Carlo Alberto Indellic…

Pubblicato il: 12/01/2015 – 16:42
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Condannati a 30 anni gli assassini di Angela Costantino

REGGIO CALABRIA Hanno un nome e un volto gli assassini di Angela Costantino, la moglie del boss Pietro Lo Giudice, scomparsa senza lasciare traccia il 16 marzo del 1994. Il gup Carlo Alberto Indellicati ha condannato a trent’anni di reclusione Pietro Lo Giudice, zio del marito, e suo nipote, Fortunato Pennestrì. Secondo la ricostruzione del pm Sara Ombra, che ha sostenuto l’accusa in dibattimento, sarebbero stati rispettivamente il mandante e l’esecutore materiale di quell’omicidio scoperto a distanza di quasi vent’anni grazie alle rivelazioni del pentito Maurizio Lo Giudice.
Sposata giovanissima a Pietro Lo Giudice, Angela era solo una ragazza che a 25 anni – già madre di quattro di quattro figli e vedova bianca di un boss in galera – aveva pensato di poter vivere un’altra vita. O anche solo strappare alla sua quotidianità di moglie, cognata e parente di “uomo d’onore”, dei momenti di felicità con un altro uomo capitato per caso nella sua vita. Un uomo con il quale Angela aveva deciso – o molto più probabilmente con il quale era capitato – di fare un figlio. Ma il marito era già da troppo tempo in galera e, quella gravidanza non era giustificabile in nessun modo. Per la famiglia – che nel caso di Angela come di tutte le donne di ‘ndrangheta va molto oltre quella anagrafica e diventa un grumo di sangue, parentele e “rispetti” che ti soffoca e ti attanaglia – è un marchio di infamia, una manifestazione di debolezza, un segno di resa. Come matrimoni e fidanzamenti sanciscono alleanze fra clan, un figlio è per la famiglia – tutta la famiglia – un progetto di futuro mantenimento del potere. Un’assicurazione sulla perpetuazione stessa del clan. Per questo un figlio illegittimo, per un boss è il segnale che può essere tradito, colpito.
Espropriata del diritto di decidere della sua stessa vita, del suo stesso corpo, Angela china la testa. Obbedisce. Si “disfa” di quel figlio che forse è capitato, o forse voleva, ma che in ogni caso era suo – suo e di un altro uomo – e sul destino del quale le è stata negata qualsiasi facoltà di scelta. Ma al clan non basta. Le notizie corrono, le voci girano e Angela è diventata, essa stessa, un marchio di infamia. Che deve essere cancellato in nome di un distorto concetto di onore, di cui le ‘ndrine si riempiono la bocca, ma che calpestano quotidianamente sotto le suole. In due strangolano una donna indifesa, in sei contribuiscono a occultarne il cadavere e il delitto, un’intera famiglia sa e nasconde per quasi vent’anni.
Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti grazie alle rivelazioni dei pentiti del clan Lo Giudice – Maurizio prima, Nino “il nano” poi – come di altri collaboratori di giustizia come l’ex capolocale di Gallico, Paolo Iannò, Angela sarebbe stata sorpresa in casa da Natino Pennestrì, all’epoca appena diciannovenne. Su mandato dello zio, l’avrebbe strangolata quindi insieme avrebbero fatto sparire il corpo, mai più ritrovato. Di lei rimarrà solo l’auto, fatta ritrovare a pochi giorni dalla scomparsa a Villa San Giovanni. All’interno, saranno anche opportunamente collocate anche le ricette mediche del servizio salute mentale che serviranno per giustificare la presunta depressione che – secondo le versioni fornite all’epoca dai familiari – avrebbe spinto la donna ad allontanarsi. Una versione di comodo durata vent’anni, ma su cui oggi il Tribunale reggino è riuscito a fare luce.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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